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La censura dell’arte nel XXI secolo

Parliamo di censura dell’arte nel XXI secolo quando la linea che distingue un contenuto pornografico da uno artistico è in mano a un algoritmo.

Dopo gli scandali emersi dai dati di Cambridge Analytica, i social network, specie Instagram e Facebook, hanno introdotto nuovi algoritmi per salvaguardare le piattaforme e la privacy degli utenti. Tra questi è stato generato un algoritmo che consente la censura e il blocco di immagini che mostrano nudità in modo da non consentire la condivisione di contenuti pornografici.

Cambridge Analytica è una società vicina alla destra statunitense che raccoglie i profili psicologici degli utenti per creare campagne di marketing mirate. Lo scandalo risale a qualche anno fa, quando venne creata da un ricercatore dell’Università di Cambridg, Aleksandr Kogan, una app di nome thisisyourdigitallife dove per utilizzarla bisognava collegarsi con il proprio account Facebook. Kogan è così riuscito a costruire un enorme archivio con i dati di ogni singolo utente ed ha condiviso queste informazioni con Cambridge Analytica violando i termini d’uso di Facebook. Il Guardian e il New York Times sostennero che Facebook fosse comunque al corrente di tutto e che le condizioni d’uso di Facebook fossero “fallate”. Ulteriori problemi sono poi nati quando Cambridge Analytica  sfruttò i dati personali degli utenti di Facebook per fare propaganda politica di diverse campagne elettorali, tra queste l’elezione di Trump

Ma la nudità non sempre è sinonimo di volgarità; essa infatti viene spesso raffigurata nell’arte e riflette le norme sociali, estetiche e morali, del tempo e del luogo in cui è stato eseguita l’opera. Questo perché l’uomo è sempre stato attratto da sé stesso e dal sogno di riuscire a comprendere gli aspetti che lo riguarda, tra cui l’attrazione per l’immagine di sé.

Di questo i social network ne sono consapevoli e infatti nel momento in cui sono entrate in vigore le nuove norme della community, si erano pronunciati a riguardo così:

Sappiamo che immagini di nudo possono essere condivise per diversi motivi, come forma di protesta, per sensibilizzare su una causa e a scopo educativo o medico. Qualora tali immagini siano chiari, facciamo concessi sul contenuto. Ad esempio, se da una parte limitiamo alcune immagini di seni femminili in cui i capezzoli sono visibili, possiamo consentire altre immagini, tra cui quelle che ritraggono atti di protesta, donne che allattano e foto di cicatrici causate da una mastectomia. È permesso anche la pubblicazione di fotografie di dipinti, sculture o altre forme d’arte che ritraggono figure nude.

Ma questo nuovo algoritmo è davvero così efficace?

A quanto pare l’intelligenza artificiale si è dimostrata diverse volte non in grado di distinguere un contenuto pornografico da un contenuto artistico.

L’algoritmo ha infatti censurato diversi post de la Venere di Willendorf, la Discesa dalla croce e la foto che è diventata simbolo della Guerra del Vietnam di Nick Ut.

Casi più recenti riguardano il blocco del video promozionale della mostra di Natalia Goncharova, pittrice del Novecento, che ironicamente all’epoca fu accusata e processata per offesa della pubblica morale e pornografia.

“Natalia Goncharova. Una donna e le avanguardie tra Gauguin, Matisse e Picasso”
Le sue opere saranno esposte a Palazzo Strozzi dal 28 settembre al 12 gennaio.

Il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi ha risposto:

Si può dire che, dopo oltre un secolo, l’opera di Natalia riesce ancora a scandalizzare come aveva fatto ai suoi tempi […] Sui social media vediamo costantemente immagini o video di nudo ma in questo caso viene bloccata l’immagine di un dipinto che appartiene alla storia dell’arte moderna.
Si innesca così inevitabilmente una domanda: può un algoritmo determinare un principio di censura all’interno di uno dei principali mezzi di comunicazione e informazione del mondo?

La censura è arrivata infine anche alle opere di Antonio Canova: il profilo del museocanova nell’ultimo mese si è mossa creando una campagna contro la censura d’immagini di opere d’arte lanciando anche un hashtag #freeantoniocanova, chiedendo ai follower e agli amanti d’arte di condividere le immagini di alcune opere di Canova contenenti nudità.

In questi giorni anche il critico d’arte e presidente dalla Fondazione Canova onlus, Vittorio Sgarbi, ha preso la decisione di fare causa a Facebook e Instagram per queste continue censure alle opere d’arte.

Ma già nel 2018 vi furono delle proteste: sui muri della città di Milano erano state affisse foto di capezzoli di ogni tipo affiancati dall’hashtag #freenipples. Una delle giovani donne dietro a questa iniziativa afferma:

Mi sono scontrata con la censura perché sono una fotografa e ultimamente scatto molti nudi, quindi sento il tema particolarmente vicino.

Per concludere vi lasciamo a un video arrivato dal Belgio che risponde in modo molto divertente a questo nuovo algoritmo dei social network:

I media nella cultura

Se l’ultima volta ci siamo interrogati su come i social media potessero giocare un ruolo importante all’interno delle azioni museali, oggi, di fronte a recenti eventi, diventa importante capire anche quale sia il ruolo dei musei inseriti in contesti di diffusione diversi da quelli tradizionali, come per esempio il videoclip musicale. Un cinema ridotto temporalmente ma amplificato nella diffusione, che può diventare strumento e arma di rappresentazione individuale e sociale.

È il caso del Louvre, che ha affittato i suoi spazi a icone internazionali della scena musicale come Beyoncé e Jay-Z per girare il loro nuovo videoclip: APESH*T.

Come preannunciato dal titolo della canzone, il pubblico è andato in visibilio. Le 95 milioni di views su Youtube lo confermano.

Una scelta pop e un modo, da quanto affermato da Anne-Laure Béatrix, direttrice delle relazioni esterne dell’istituzione museale a Le Monde, per avvicinare i giovani e tutte le persone che si sentono fortemente distaccate dalla cultura e arte racchiusa dal museo.

Proprio dal quotidiano francese nasce la polemica e ci si interroga sulla necessità del museo di utilizzare questi mezzi per farsi pubblicità. D’altronde questo tipo di interventi potrebbe essere considerato deleterio per arte e cultura in quanto sintomo di commercializzazione e passivo consumismo culturale.
Bisogna premettere che non è la prima volta che il Louvre affitta i suoi spazi per scopi cinematografici ( si veda per esempio 50 Sfumature di Grigio, I Puffi, The Dreamers, Il Codice da Vinci ecc.), eppure nessuno di questi ha creato tanto scandalo come il video rilasciato dai coniugi, che si sono firmati con il nome The Carters. La motivazione forse è da ricercarsi nella viralità che ha esposto il museo e le sue opere a nuove e molteplici interpretazioni.
Ma giunti nell’era in cui tutti possono fruire liberamente dei contenuti veicolati attraverso la rete, l’equazione popolare uguale mediocre diventa un misconcetto da scomporre.
Non bisogna dimenticare che il Louvre, oltre a essere il museo più visitato al mondo, svolge il suo ruolo seguendo tutte le funzioni dettate da ICOM e dunque può permettersi di aprirsi a nuove strade al fine di valorizzare il suo brand e includere una varietà di pubblico sempre maggiore.
Incoraggiati dal successo, il direttore del Louvre Jean Luc Martinez decide di aprire un tour ispirato al videoclip e il duo musicale chiede in prestito il Colosseo.

Ma ciò che mette al centro del dibattito culturale il videoclip è anche il fatto che quella delle due star musicali è un’operazione eminentemente artistica con un pregnante valore simbolico a livello sociale.
Le interpretazioni più diffuse di APESH*T vogliono che le danze sinuose e le inquadrature emblematiche attraverso cui la coppia afroamericana si muove fra le sale del museo non abbiano solo degli scopi estetici (seppure conseguiti eccezionalmente) ma siano un vero e proprio inserimento di una nuova forma d’arte nel kanon contemporaneo, a lungo negato alla comunità afroamericana. Presentandosi così come nuovi Napoleone e Josephine che si auto-incoronano davanti al popolo.

Beyonce e un gruppo di ballerine danzano sotto il dipinto di Jacques-Louis David “L’Incoronazione di Napoleone”.
Screenshot dal video su Youtube

L’estetizzazione, e ostentazione, del loro successo attraverso il video è tangibile, talvolta contestabile, ma esso riproduce anche dettagli e accostamenti inusuali in cui corpi di diverse sfumature di colore prendono il controllo dello spazio fisico e culturale, mentre la camera si sofferma su dipinti e sculture simbolo della cultura e bellezza occidentale, del potere e della carne. Sembra una rivoluzione inaspettata, lo stesso duo non può credere di avercela fatta (“Can’t believe we made it” canta Beyoncé in APES**T), e adesso si gode lo spettacolo.

Il video musicale assume un carattere polivalente che riesce perfettamente nel mescolare fini commerciali e creatività, cultura pop e cultura “alta”, intrattenendo e allo stesso tempo fornendo i segni per ricalcare le diverse sfaccettature della nostra epoca.
Recentemente un altro videoclip (sempre di un cantante afroamericano) ha fatto molto parlare di sé, proprio grazie alla capacità di questa arte di generare dei messaggi in codice attraverso il lavoro sinergico di musica, immagini e coreografia.
Rispetto a Beyoncé e Jay-Z, Donald Glover, in arte Childish Gambino, ci presenta un universo differente, dove sui neri ancora vige violenza, discriminazione.
Le discriminazioni razziali infatti sussistono, rivelandosi, soprattutto nell’America di Trump, un problema non ancora superato.

Secondo Paolo Armelli di Wired: “Il bilancio di “This Is America” è un ambivalente grido d’allarme: da una parte Glover denuncia i pericoli e la violenza che circondano le black community negli Stati Uniti, dall’altra sembra suggerire una specie di autocritica rispetto a quei modelli consumistici che annebbiano la vista di chi invece dovrebbe portare avanti valori più importanti, afroamericani in primis”
Tutto ciò richiama alla mente i neon di Glenn Ligon, che rappresentano questa dicotomia americana tra il sogno di prosperità ed equità e la difficile realtà esistente.
Come ci dimostra APESH*T, anche il museo, grazie a questo medium, può diventare il luogo in cui comunicare un messaggio specifico. Musica e immagini in movimento insieme possono essere strumenti potenti, pervasivi in tutti gli strati della società, per trasmettere un messaggio emblematico, che ha il gusto ambivalente di entertainment e denuncia sociale.
E l’istituzione museale, con le dovute cautele (riguardo in particolar modo la conservazione dei beni che ha in carico), se inserito come
co-protagonista di queste storie può farsi portatrice di inclusione e apertura verso le nuove generazioni e le nuove forme di diffusione.
Il videoclip, che si pone come obiettivo anche quello di mandare dei segnali precisi, può essere uno dei tanti mezzi con cui il museo può rigenerare la sua immagine, lasciandosi alle spalle la concezione che lo vedeva ingabbiato nella cristallizzazione del passato.
I suoi contenuti sono vivi, e si confrontano con i cambiamenti sociali del presente. I significati di cui sono portatrici le opere hanno un riscontro nell’attualitá e di riflesso l’istituzione stessa che le conserva si rivela il luogo adatto per instaurare un dialogo tra passato e modernità.

Il museo che si apre a queste forme di spettacolarizzazione non deve essere considerato semplicemente sfondo, set cinematografico ma scrigno di significati ancora influenti e rilevanti nella società contemporanea.
É ormai indubbio che Il museo debba sempre di più porsi in conversazione con il presente: non solo attraverso l’aggiornamento dei nuovi metodi di comunicazione interni al museo stesso, ma soprattutto partecipando attivamente alla vita culturale, politica e sociale della comunità. Questa partecipazione può provenire da programmi costruiti ad hoc dal museo, ma può anche nascere dall’ intreccio con scenari atipici per l’istituzione.
In questo contesto anche il museo diventa, sempre più, transmediale, un luogo il cui contenuto può essere, come direbbe Francesco Casetti, rilocato su diverse piattaforme e forme di comunicazione.

La luce oltre lo schermo

Il ruolo crescente che la tecnologia gioca nelle nostre vite è un tema di dibattito sempre più pressante fra gli addetti del settore museale. soluzionimuseali-ims ha provato ad interrogarsi sul tema, chiedendosi se i social siano soltanto un nuovo media per mettere in atto azioni tradizionali di marketing oppure se riescano davvero ad instaurare con il pubblico dei musei una conversazione più profonda.

Per approfondire con noi questo tema, leggete questo primo articolo della nostra nuova rubrica La luce oltre lo schermo, dal titolo Musei e Social Network: quando la condivisione della cultura diventa virale.