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EMYA 2019: il valore del confronto

Anche quest’anno European Museum of the Year (EMYA) si è dimostrato un interessantissimo osservatorio per valutare come sta evolvendo la museologia nei Paesi membri del Consiglio d’Europa. 

La 42ma edizione del Premio fondato da Kenneth Hudson si è svolta a Sarajevo dal 22 al 25 Maggio, organizzata dal War Childhood Museum, vincitore del Premio del Consiglio d’Europa nel 2018. 

40 musei da 17 Paesi hanno scelto di prendere parte alla competizione, farsi giudicare dai giudici di EMYA e concorrere dando il loro meglio durante la presentazione pur sapendo che i giochi erano già fatti. 

Il valore di queste manifestazioni, infatti, qual è? Perché da 42 anni musei di tutto il continente decidono di partecipare al premio? Non certo per il valore economico, inesistente, del premio in sé, ma sicuramente per la sua reputazione e per poter guadagnare il premio più grande del nostro settore museale: riuscire a confrontarsi con colleghi internazionali in modo informale, sulle problematiche quotidiane o su temi etici e contenutistici, fornendo il proprio approccio e prendendo spunto dalle pratiche degli altri.

Quindi, poca importanza ha se si porta a casa un premio, perché in ogni caso si porta a casa una esperienza forte e profonda che lascerà sicuramente il segno. 

Si portano a casa i contenuti dei keynote speeches del fondatore del War Childwood Museum, di Sharon Heal direttrice della Museum Association UK, di Deyan Sudjic direttore del vincitore dell’EMYA2018, il Museo del Design di Londra.

Interventi tutti, insieme ai dibattiti tematici a cui i candidati sono invitati a partecipare, e ai workshop su macro temi della museologia, che illuminano, ispirano e confermano che il nostro lavoro è uno dei più belli del mondo: dare una chiave di comprensione del mondo in cui si vive attraverso le molteplici tipologie museali. 

E quindi non è rilevante che il premio EMYA principale sia stato vinto dal Rijksmuseum Boerhaave, di Leiden, il premio del Consiglio d’Europa sia andato al Museum für Kommunikation di Berna, il Premio Kenneth Hudson al Weltmuseum di Vienna, il Silletto Prize allo Strandingsmuseum St. George in Danimarca o il nuovo Portimao Prize al museo Brunels’s SS Great Britain …. È rilevante che quest’anno la presenza italiana fosse pari a zero perché forse da noi la filosofia del confronto non è così diffusa e apprezzata.

I nostri migliori auguri ai candidati italiani dell’anno prossimo, sapendo che anche se non vincessero, vincono lo stesso.

Il visitor journey nei musei

Finalmente non siamo più i soli a parlare di visitors’ journey!

È dal 2004 che parliamo di brand e di visitors’ journey. Recentemente, non siamo più da soli a promuovere questo concetto che è uno dei pilastri su cui si basano le strategie di marketing. Infatti è sul customer or purchase journey che si sviluppa il “percorso” che i visitatori compiono per avvicinarsi ai musei.
Ma anche se parliamo di marketing, non vi spaventate, cercheremo di farlo in modo comprensibile.

È stato Douglas B. Holt a identificare per primo nel 1995 il processo che determina il comportamento e le motivazioni all’acquisto dei consumatori: esperienza, integrazione e classificazione a cui aggiunse la dimensione del gioco. Dalla sua analisi, il passaggio alla pianificazione del processo d’acquisto è stato facile.

Così, la trasposizione del customer journey al visitor journey aiuta l’istituzione museale a capire meglio le motivazioni dei suoi visitatori e i comportamenti, pianificando il percorso in modo da sciogliere ogni possibile “inciampo” sul cammino.
Come si muove il visitatore all’interno del museo? Come viene coinvolto? Quali azioni compie prima della visita e quali dopo?

Questa attitudine pianificatoria, infatti, aiuta a porre attenzione a tutti gli strumenti che possono condurre un potenziale visitatore a:

  • «intercettare» la presenza del museo nel territorio che a lui interessa;
  • identificare l’offerta museale rispetto a quella di potenziali competitori che, sempre più spesso, non sono altri musei bensì altre attività nell’ambito dello sport e dell’entertainment;
  • pianificare le risorse che dovrà mettere in atto (di tempo, economiche e organizzative) per realizzare la visita.

Ma il visitors’ journey non si ferma qui, anche se per molti forse sarà già una sorpresa iniziare a pensare che il percorso dei visitatori non è solo ed esclusivamente quello che devono compiere all’interno del museo, una volta varcata la soglia – fisica o virtuale.

Se vogliamo dare qualche indicazione pratica, come nostra abitudine, iniziamo a dire che il v.j. deve prevedere le fasi PrimaDuranteDopo la visita.
La prima e l’ultima fase sono quelle più delicate perché il museo ha l’obbligo di prevederle e cercare di governarle, ma sono le fasi in cui la volontà e l’attenzione del visitatore agisce indipendentemente e può venire distratta da una miriade di altri fattori. Nelle fasi del Prima e del Dopo, il museo deve mettere essere capace di attivare ogni suo canale di comunicazione e di rapporto con il territorio; mentre dove il museo si gioca tutte le sue carte in modo diretto è, ovviamente, nella fase di visita – il Durante. Qui non può proprio sbagliare: anche se qualcosa del Prima non è andato bene, nel Durante come dicono in alcune trasmissioni, deve “spaccare”!

Ogni fase, ha le sue “pietre miliari” … e avete notato che stiamo cercando di non usare inglesismi, questa volta?

Nella fase PRIMA, bisogna far nascere la consapevolezza dell’esistenza del museo e della sua offerta, stimolare il desiderio di visita, facilitare l’organizzazione e, oramai sempre più in questa fase, concludere l’acquisto.
Per far nascere la consapevolezza, attività di comunicazione tradizionale o/e virtuale devono essere rivolte a chiunque possa essere interessato ai messaggi, ai contenuti, al territorio in cui si trova il museo.

Per fare questo i social network e la cartellonistica tradizionale, locandine e cartoline possono essere strumenti adeguati per stare nella prossimità. Alcuni musei hanno iniziato a fare pubblicità sui media tradizionali e sui mezzi di trasporto, e ad utilizzare i social network come “agganci” per nuovi pubblici.
La consapevolezza dell’esistenza di un museo e della sua offerta culturale si trasmette anche attraverso l’identificazione di un logo ben riconoscibile, omogeneo alla identità grafica e visuale del museo su tutti i materiali on-line ed off-line relativi al museo stesso. E a questo proposito, vi invitiamo ad andare a rivedere il nostro articoletto sul Brand museale.

Una volta che il visitatore è venuto a conoscenza del museo e della sua offerta, vuole saperne di più e quindi inizia la scoperta del museo e di dove si trova attraverso il sito web, video, gaming e altri canali e strumenti di approfondimento. Qui bisogna stare molto attenti! Tutto quello che il museo dichiara deve poi essere ritrovato. Quindi indicazioni stradali, ricettività, ristorazione, attività sul territorio, accessibilità e qualsiasi tipo di servizio di cui il museo si fa portavoce nei suoi canali di comunicazione, deve essere effettivamente presente. In questo modo il museo si fa in un certo modo garante del suo territorio e dei suoi servizi. Una bella responsabilità, ma è la chiave per dare una visione completa ed esaustiva al visitatore di come organizzarsi e di quella che sarà la sua esperienza di visita.

Se i due passaggi precedenti sono stati efficacemente progettati dal museo, il coinvolgimento è assicurato! Si potrebbe attivare anche, sempre per aumentare il coinvolgimento del visitatore prima del suo arrivo, un sistema di CRM e di dialogo diretto che il museo sia in grado di rendere stimolante (chatbot, Faq, Q&A, oltre alla più tradizionale newsletter).

E da qui via a far acquistare il biglietto online… oppure per chi può, alle soglie dell’ingresso del museo.

E così inizia la fase DURANTE. Su questo tema ci sarebbe da scrivere molto.

Ci limitiamo a ricordare quanto diceva Kenneth Hudson riguardo i musei: quelli migliori sono quelli in cui ci sono più sedie che opere e dai quali si esce migliori di quando vi ci sia entrati.
Naturalmente, ognuno ha il suo stile e la sua missione specifica e quindi non entriamo qui nel dettaglio ma tuttavia se le aspettative del visitatore rispetto all’esperienza di visita vengono confermate – e magari ampliate – all’uscita del museo, nella fase del DOPO, vi sarete garantiti un visitatore in più che continuerà a seguirvi e che concorrerà ad aumentare la vostra reputazione e la consapevolezza fra il suo circolo di conoscenze (non dimenticate che il passaparola resta lo strumento di marketing più antico del mondo!).

Nella nostra attività di consulenza e progettazione, adottiamo un approccio olistico basato sull’analisi del visitor journey. Questo ci permette di approfondire e migliorare le esigenze del museo e del pubblico al quale si rivolge, ottimizzando efficienza ed esperienza.

La pandemia ha rimescolato le carte: distanza sociale e norme igieniche incidono particolarmente sul visitor journey tradizionale, il quale deve ora adattarsi e rimodellarsi a fronte delle nuove necessità. Per questo, nell’articolo della prossima settimana tracceremo un nuovo scenario per il visitor journey post Covid19.

Per tutto il resto, e per approfondimenti contattateci qui o scriveteci sui nostri canali social.

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#Chatonthesofa: oltre il format

#Chatonthesofa: oltre il format

Sono passati alcuni mesi da quando il mondo ha dovuto fermarsi a causa di una pandemia globale, imponendoci di arrestare bruscamente la nostra quotidianità e costringendoci nelle nostre case. Per affrontare questo periodo di smarrimento e isolamento il team di soluzionimuseali-ims ha pensato di creare un format ad hoc, Chat on the sofa, per scambiare opinioni, idee e prospettive con ospiti internazionali sulla situazione che i musei e il mondo culturale più in generale stavano vivendo in quel momento. L’obiettivo era quello di scattare una fotografia della situazione durante la pandemia per i musei di tutto il mondo, per poi confrontarsi su come affrontare la ripresa delle attività e la riapertura.

L’idea del format nasce dalla necessità di rimanere al sicuro nelle proprie abitazioni, ma con la forte volontà da parte degli interlocutori di incontrarsi in modo informale, di confrontarsi amichevolmente e di creare una rete solidale tra operatori culturali. Da qui il termine Chat on the Sofa: benché separati da chilometri di distanza e impossibilitati ad incontrarsi di persona, gli ospiti si sono incontrati via diretta Instagram, uniti dalla passione per il mondo culturale e per il proprio lavoro e dalla speranza di una pronta ripresa.

Di certo la pandemia di Covid-19 ha lasciato un segno indelebile sulle nostre vite e ha cambiato per sempre il nostro rapporto con lo spazio, e in questo caso il rapporto con lo spazio museale, il quale va ripensato in termini di sicurezza e relazione con il pubblico.
Questo è stato uno dei topic principali delle video-interviste: come i musei hanno affrontato e reagito a questa crisi e quali saranno i loro prossimi passi, in una realtà completamente nuova e difficile da gestire.
Il confronto con realtà internazionali ci ha permesso di avere una visione più ampia di ciò che stava succedendo nel mondo, delineando approcci e problemi differenti ma anche molti punti in comune.

Una delle problematiche più impellenti per le realtà protagoniste delle Chat on the Sofa è sicuramente quella economica, in una situazione in cui il settore era già fortemente danneggiato. Alcuni musei hanno ricevuto aiuti statali o da fondi privati, altri rischiano la chiusura e avanzano con difficoltà.

Una questione emersa di frequente riguarda il ruolo del museo all’interno della comunità di riferimento, che siano nativi neozelandesi, abitanti delle favelas brasiliane o tribù della penisola arabica. Si tratta di un ruolo estremamente delicato, in cui il museo dovrebbe essere attore attivo e fare da ponte tra passato e presente, creando valore. 

Una via per affrontare la pandemia, intrapresa da molti dei musei citati durante le chiacchierate, seguendo anche un trend che ha caratterizzato la quasi totalità dei musei mondiali durante la quarantena, è stata quella di dare forte impulso alle attività digitali: da interviste a tutorial, da visite guidate con il direttore del museo a laboratori per grandi e piccini; le forze dei musei si sono concentrate nel fornire dei servizi di qualità per educare e raccontare contenuti, nonostante la chiusura fisica delle loro strutture. Strumenti che erano già a disposizione di tutti sono stati riscoperti e finalmente utilizzati, come con le Chat on the Sofa: l’isolamento forzato ci ha permesso di sentirci e vicini a luoghi e persone geograficamente distanti. 

I musei stanno esplorando ancora come utilizzare la tecnologia digitale, analizzando i progetti di successo e le reazioni del pubblico (qui una piccola guida al digital storytelling per i musei). La domanda, a cui ancora non abbiamo la risposta, è quindi come l’uso delle tecnologie per la fruizione e la comunicazione dei musei si svilupperà e in quale direzione, anche se possiamo dire con certezza che rappresentano un’eccellente opportunità di evoluzione per queste realtà. 

Per riassumere, dalle nostre interviste a 12 professionisti della cultura e dei musei emerge la necessità di ripensare il museo tradizionale, o di continuare su strade innovative, per mantenere la cultura viva, accessibile, in grado di sfruttare con consapevolezza gli strumenti digitali e creare un legame attivo con le comunità.

Le interviste di Chat on the Sofa sono reperibili sul canale IGTV di soluzionimuseali-ims e sono ora disponibili anche sul nostro canale YouTube.

Gli ospiti, che provengono dai quattro angoli del globo, sono stati i seguenti:

 

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I media nella cultura

Se l’ultima volta ci siamo interrogati su come i social media potessero giocare un ruolo importante all’interno delle azioni museali, oggi, di fronte a recenti eventi, diventa importante capire anche quale sia il ruolo dei musei inseriti in contesti di diffusione diversi da quelli tradizionali, come per esempio il videoclip musicale. Un cinema ridotto temporalmente ma amplificato nella diffusione, che può diventare strumento e arma di rappresentazione individuale e sociale.

È il caso del Louvre, che ha affittato i suoi spazi a icone internazionali della scena musicale come Beyoncé e Jay-Z per girare il loro nuovo videoclip: APESH*T.

Come preannunciato dal titolo della canzone, il pubblico è andato in visibilio. Le 95 milioni di views su Youtube lo confermano.

Una scelta pop e un modo, da quanto affermato da Anne-Laure Béatrix, direttrice delle relazioni esterne dell’istituzione museale a Le Monde, per avvicinare i giovani e tutte le persone che si sentono fortemente distaccate dalla cultura e arte racchiusa dal museo.

Proprio dal quotidiano francese nasce la polemica e ci si interroga sulla necessità del museo di utilizzare questi mezzi per farsi pubblicità. D’altronde questo tipo di interventi potrebbe essere considerato deleterio per arte e cultura in quanto sintomo di commercializzazione e passivo consumismo culturale.
Bisogna premettere che non è la prima volta che il Louvre affitta i suoi spazi per scopi cinematografici ( si veda per esempio 50 Sfumature di Grigio, I Puffi, The Dreamers, Il Codice da Vinci ecc.), eppure nessuno di questi ha creato tanto scandalo come il video rilasciato dai coniugi, che si sono firmati con il nome The Carters. La motivazione forse è da ricercarsi nella viralità che ha esposto il museo e le sue opere a nuove e molteplici interpretazioni.
Ma giunti nell’era in cui tutti possono fruire liberamente dei contenuti veicolati attraverso la rete, l’equazione popolare uguale mediocre diventa un misconcetto da scomporre.
Non bisogna dimenticare che il Louvre, oltre a essere il museo più visitato al mondo, svolge il suo ruolo seguendo tutte le funzioni dettate da ICOM e dunque può permettersi di aprirsi a nuove strade al fine di valorizzare il suo brand e includere una varietà di pubblico sempre maggiore.
Incoraggiati dal successo, il direttore del Louvre Jean Luc Martinez decide di aprire un tour ispirato al videoclip e il duo musicale chiede in prestito il Colosseo.

Ma ciò che mette al centro del dibattito culturale il videoclip è anche il fatto che quella delle due star musicali è un’operazione eminentemente artistica con un pregnante valore simbolico a livello sociale.
Le interpretazioni più diffuse di APESH*T vogliono che le danze sinuose e le inquadrature emblematiche attraverso cui la coppia afroamericana si muove fra le sale del museo non abbiano solo degli scopi estetici (seppure conseguiti eccezionalmente) ma siano un vero e proprio inserimento di una nuova forma d’arte nel kanon contemporaneo, a lungo negato alla comunità afroamericana. Presentandosi così come nuovi Napoleone e Josephine che si auto-incoronano davanti al popolo.

Beyonce e un gruppo di ballerine danzano sotto il dipinto di Jacques-Louis David “L’Incoronazione di Napoleone”.
Screenshot dal video su Youtube

L’estetizzazione, e ostentazione, del loro successo attraverso il video è tangibile, talvolta contestabile, ma esso riproduce anche dettagli e accostamenti inusuali in cui corpi di diverse sfumature di colore prendono il controllo dello spazio fisico e culturale, mentre la camera si sofferma su dipinti e sculture simbolo della cultura e bellezza occidentale, del potere e della carne. Sembra una rivoluzione inaspettata, lo stesso duo non può credere di avercela fatta (“Can’t believe we made it” canta Beyoncé in APES**T), e adesso si gode lo spettacolo.

Il video musicale assume un carattere polivalente che riesce perfettamente nel mescolare fini commerciali e creatività, cultura pop e cultura “alta”, intrattenendo e allo stesso tempo fornendo i segni per ricalcare le diverse sfaccettature della nostra epoca.
Recentemente un altro videoclip (sempre di un cantante afroamericano) ha fatto molto parlare di sé, proprio grazie alla capacità di questa arte di generare dei messaggi in codice attraverso il lavoro sinergico di musica, immagini e coreografia.
Rispetto a Beyoncé e Jay-Z, Donald Glover, in arte Childish Gambino, ci presenta un universo differente, dove sui neri ancora vige violenza, discriminazione.
Le discriminazioni razziali infatti sussistono, rivelandosi, soprattutto nell’America di Trump, un problema non ancora superato.

Secondo Paolo Armelli di Wired: “Il bilancio di “This Is America” è un ambivalente grido d’allarme: da una parte Glover denuncia i pericoli e la violenza che circondano le black community negli Stati Uniti, dall’altra sembra suggerire una specie di autocritica rispetto a quei modelli consumistici che annebbiano la vista di chi invece dovrebbe portare avanti valori più importanti, afroamericani in primis”
Tutto ciò richiama alla mente i neon di Glenn Ligon, che rappresentano questa dicotomia americana tra il sogno di prosperità ed equità e la difficile realtà esistente.
Come ci dimostra APESH*T, anche il museo, grazie a questo medium, può diventare il luogo in cui comunicare un messaggio specifico. Musica e immagini in movimento insieme possono essere strumenti potenti, pervasivi in tutti gli strati della società, per trasmettere un messaggio emblematico, che ha il gusto ambivalente di entertainment e denuncia sociale.
E l’istituzione museale, con le dovute cautele (riguardo in particolar modo la conservazione dei beni che ha in carico), se inserito come
co-protagonista di queste storie può farsi portatrice di inclusione e apertura verso le nuove generazioni e le nuove forme di diffusione.
Il videoclip, che si pone come obiettivo anche quello di mandare dei segnali precisi, può essere uno dei tanti mezzi con cui il museo può rigenerare la sua immagine, lasciandosi alle spalle la concezione che lo vedeva ingabbiato nella cristallizzazione del passato.
I suoi contenuti sono vivi, e si confrontano con i cambiamenti sociali del presente. I significati di cui sono portatrici le opere hanno un riscontro nell’attualitá e di riflesso l’istituzione stessa che le conserva si rivela il luogo adatto per instaurare un dialogo tra passato e modernità.

Il museo che si apre a queste forme di spettacolarizzazione non deve essere considerato semplicemente sfondo, set cinematografico ma scrigno di significati ancora influenti e rilevanti nella società contemporanea.
É ormai indubbio che Il museo debba sempre di più porsi in conversazione con il presente: non solo attraverso l’aggiornamento dei nuovi metodi di comunicazione interni al museo stesso, ma soprattutto partecipando attivamente alla vita culturale, politica e sociale della comunità. Questa partecipazione può provenire da programmi costruiti ad hoc dal museo, ma può anche nascere dall’ intreccio con scenari atipici per l’istituzione.
In questo contesto anche il museo diventa, sempre più, transmediale, un luogo il cui contenuto può essere, come direbbe Francesco Casetti, rilocato su diverse piattaforme e forme di comunicazione.

La censura dell’arte nel XXI secolo

Dopo gli scandali emersi dai dati di Cambridge Analytica, i social network, specie Instagram e Facebook, hanno introdotto nuovi algoritmi per salvaguardare le piattaforme e la privacy degli utenti. Tra questi è stato generato un algoritmo che consente la censura e il blocco di immagini che mostrano nudità in modo da non consentire la condivisione di contenuti pornografici.

Cambridge Analytica è una società vicina alla destra statunitense che raccoglie i profili psicologici degli utenti per creare campagne di marketing mirate. Lo scandalo risale a qualche anno fa, quando venne creata da un ricercatore dell’Università di Cambridg, Aleksandr Kogan, una app di nome thisisyourdigitallife dove per utilizzarla bisognava collegarsi con il proprio account Facebook. Kogan è così riuscito a costruire un enorme archivio con i dati di ogni singolo utente ed ha condiviso queste informazioni con Cambridge Analytica violando i termini d’uso di Facebook. Il Guardian e il New York Times sostennero che Facebook fosse comunque al corrente di tutto e che le condizioni d’uso di Facebook fossero “fallate”. Ulteriori problemi sono poi nati quando Cambridge Analytica  sfruttò i dati personali degli utenti di Facebook per fare propaganda politica di diverse campagne elettorali, tra queste l’elezione di Trump

Ma la nudità non sempre è sinonimo di volgarità; essa infatti viene spesso raffigurata nell’arte e riflette le norme sociali, estetiche e morali, del tempo e del luogo in cui è stato eseguita l’opera. Questo perché l’uomo è sempre stato attratto da sé stesso e dal sogno di riuscire a comprendere gli aspetti che lo riguarda, tra cui l’attrazione per l’immagine di sé.

Di questo i social network ne sono consapevoli e infatti nel momento in cui sono entrate in vigore le nuove norme della community, si erano pronunciati a riguardo così:

Sappiamo che immagini di nudo possono essere condivise per diversi motivi, come forma di protesta, per sensibilizzare su una causa e a scopo educativo o medico. Qualora tali immagini siano chiari, facciamo concessi sul contenuto. Ad esempio, se da una parte limitiamo alcune immagini di seni femminili in cui i capezzoli sono visibili, possiamo consentire altre immagini, tra cui quelle che ritraggono atti di protesta, donne che allattano e foto di cicatrici causate da una mastectomia. È permesso anche la pubblicazione di fotografie di dipinti, sculture o altre forme d’arte che ritraggono figure nude.

Ma questo nuovo algoritmo è davvero così efficace?

A quanto pare l’intelligenza artificiale si è dimostrata diverse volte non in grado di distinguere un contenuto pornografico da un contenuto artistico.

L’algoritmo ha infatti censurato diversi post de la Venere di Willendorf, la Discesa dalla croce e la foto che è diventata simbolo della Guerra del Vietnam di Nick Ut.

Casi più recenti riguardano il blocco del video promozionale della mostra di Natalia Goncharova, pittrice del Novecento, che ironicamente all’epoca fu accusata e processata per offesa della pubblica morale e pornografia.

“Natalia Goncharova. Una donna e le avanguardie tra Gauguin, Matisse e Picasso”
Le sue opere saranno esposte a Palazzo Strozzi dal 28 settembre al 12 gennaio.

Il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi ha risposto:

Si può dire che, dopo oltre un secolo, l’opera di Natalia riesce ancora a scandalizzare come aveva fatto ai suoi tempi […] Sui social media vediamo costantemente immagini o video di nudo ma in questo caso viene bloccata l’immagine di un dipinto che appartiene alla storia dell’arte moderna.
Si innesca così inevitabilmente una domanda: può un algoritmo determinare un principio di censura all’interno di uno dei principali mezzi di comunicazione e informazione del mondo?

La censura è arrivata infine anche alle opere di Antonio Canova: il profilo del museocanova nell’ultimo mese si è mossa creando una campagna contro la censura d’immagini di opere d’arte lanciando anche un hashtag #freeantoniocanova, chiedendo ai follower e agli amanti d’arte di condividere le immagini di alcune opere di Canova contenenti nudità.

In questi giorni anche il critico d’arte e presidente dalla Fondazione Canova onlus, Vittorio Sgarbi, ha preso la decisione di fare causa a Facebook e Instagram per queste continue censure alle opere d’arte.

Ma già nel 2018 vi furono delle proteste: sui muri della città di Milano erano state affisse foto di capezzoli di ogni tipo affiancati dall’hashtag #freenipples. Una delle giovani donne dietro a questa iniziativa afferma:

Mi sono scontrata con la censura perché sono una fotografa e ultimamente scatto molti nudi, quindi sento il tema particolarmente vicino.

Per concludere vi lasciamo a un video arrivato dal Belgio che risponde in modo molto divertente a questo nuovo algoritmo dei social network:

Street Art nei musei

Anche i meno attenti fra i nostri concittadini milanesi sapranno che fino al 12 aprile si é svolta presso il Mudec-Museo delle Culture la mostra “Banksy – A visual protest”, l’ultima in una serie di grandi mostre internazionali che stanno portando la street art all’interno dei musei.
In molti avranno infatti notato i manifesti pubblicitari raffiguranti il famigerato “Lanciatore di fiori” che il Mudec ha diffuso per strade e metropolitana. Proprio questa campagna pubblicitaria è stata recentemente al centro di un contenzioso perché Pest Control Office Limited, la società che si occupa di gestire il brand Banksy, ha citato in giudizio 24 Ore Cultura per violazione di Copyright e vendita non autorizzata di merchandising.

Non è questo un evento eccezionale: non è infatti la prima volta che Banksy fa cause a mostre non autorizzate come quella del Mudec. Sul suo stesso sito è presente una sezione in cui sono elencate tutte le mostre “FAKE”, realizzate senza il coinvolgimento – e il permesso – dell’artista.

Screenshot da www.bansky.co.uk

Diverse persone hanno fatto notare l’incongruenza, da parte di un’artista da sempre contro il copyright, dell’utilizzo di questo stesso sistema per monitorare la diffusione delle sue opere.

E lo stesso Banksy è consapevole di questo aspetto: in una chat privata, successivamente pubblicata su Instagram, commenta di non essere la persona adatta a lamentarsi di chi utilizza immagini senza chiedere permesso (“not sure i’m the best person to complain about people putting up pictures without getting permission”).

Non è difficile immaginare come queste azioni legali abbiano soprattutto l’obiettivo di segnalare la distanza dell’artista da queste mostre piuttosto che ottenere vere limitazioni o chiusure. Come molte delle azioni di Banksy, il loro aspetto simbolico e sensazionalistico è da prendere in considerazione tanto quanto i loro contenuti ed effetti.
Sorgono dei quesiti ovvi a seguito di questo episodio: chi abbia diritto ad utilizzare le immagini, o la congruenza delle azioni di Banksy. Ma la posizione ideologica che ha spinto Banksy a rifiutare la commercializzazione della sua arte è facilmente ricollegabile alle radici più profonde della street art. E la questione che vogliamo porre anche a voi riguarda proprio il rapporto fra arte di strada, musei e mondo dell’arte in generale.

Caratteristica principale della street art è infatti primariamente la sua collocazione, in alcuni casi più caratterizzante, per l’interpretazione dell’opera, dei contenuti stessi. La scelta della collocazione avviene sia per ragioni di opportunità che per ragioni ideologiche: la street art prende infatti spesso una posizione volutamente anti-istituzionale, a cui si unisce l’aspetto egalitario dato dal trovarsi sulla strada, in una posizione accessibile a tutti e nei luoghi più lontani dal potere.

La street art è quindi un’arte senza proprietari, senza curatela e senza conservazione. Ma soprattutto un’arte senza committenti, e un’arte – di fatto – illegale.

Dato questo, sorgono dubbi rispetto al posto che l’arte di strada può avere all’interno dei musei. È possibile per la street art trovare uno spazio in questi contesti, o così facendo perde completamente di significato? La sua collocazione – e la sua posizione anti istituzionale – sono imprescindibili, o si può negoziare una via di mezzo?

Il rapporto fra street art e musei non è una novità. Arte di strada e graffiti art hanno trovato uno spazio all’interno dell’arte contemporanea, anche soltanto attraverso la commistione di tecniche e linguaggi (basti pensare ad artisti come Keith Hering).  E in diverse occasioni artisti di strada hanno collaborato con musei e altre istituzioni.

“Street Art”, Tate Modern, 2008

Fra gli esempi più recenti il più importante è forse la mostra “Street Art” che si è svolta presso la Tate Modern di Londra nel 2008, in occasione della quale ai diversi artisti coinvolti è stato chiesto di realizzare opere sulla facciata esterna del museo – già una forma di compromesso fra l’arte di strada e le istituzioni museali.

Faile, fra gli artisti coinvolti nell’esposizione, rispetto a questo nuovo rapporto fra arte e musei aveva dichiarato che “At least it’s no longer undermined as something on the street, something without value. Money fuels interest (…)” Per molti artisti il rapporto con i musei, e una validazione da parte del mondo dell’arte, è infatti strettamente collegato con il rapporto con gallerie, collezionisti e quindi con il denaro. Questo è un altro degli aspetti che rende complicati, e apparentemente irriconciliabili, i rapporti fra questi due mondi. Come molti altri artisti, lo stesso Banksy ha negoziato il suo rapporto con il mercato dell’arte, vendendo le sue opere solo in aste i cui ricavi vadano in beneficenza – o per 60$ a Central Park, nel corso di un’altra azione ad effetto. Ben Eine, street artist connazionale di Banksy, si identifica invece pubblicamente come un “working street artist” che accompagna, ai lavori fatti per strada, lavori nello “stile dello street art” che vengono venduti in gallerie e grazie a cui ricava fondi per finanziare i lavori fatti in strada.

Ma l’ingresso della street art nei sistemi convenzionali – e istituzionali- di diffusione dell’arte sembra in ogni caso inevitabile: i tentativi di Banksy – pratici o simbolici- di estraniarsi da questo sistema fanno poco per fermare il fiume in piena che è il Banksy effect – lo pseudonimo di un artista anonimo e controcorrente è anche un brand che vale milioni di dollari.

MrSavethewall_Street Art is Dead
Immagine da Deodato Gallery, rilevata da questo interessante articolo: “Street Art is dead: Mr. Savethewall decapita Bansky”

Non mancano però grida alla “morte della street art”.  Lo street artist italiano Mr. Savethewall ha lavorato sui manifesti della mostra del Mudec aggiungendo una riproduzione di “Davide con la testa di Golia”  di Caravaggio (in cui Golia indossa la maschera da scimmia di Banksy) accompagnato alla scritta “street art without street is just “art”!”

Va però preso in considerazione il terzo elemento in questa dinamica museo-artisti: il pubblico. La street art nei musei può essere un momento di validazione per l’artista, o qualcosa che avviene suo malgrado. Ma una nuova collocazione cambia fondamentalmente le modalità con cui il pubblico si relaziona all’arte.

Abbiamo già detto come la vicinanza al pubblico e l’assenza di una distanza – sia fisica che psicologica – siano fra gli elementi essenziali della street art. Trovandosi nel luogo pubblico per eccellenza è capace di avvicinarsi a chiunque, senza filtri, raggiungendo anche coloro che non cercherebbero intenzionalmente l’arte e comunicando con un pubblico estremamente più ampio di quello che frequenta i musei.

Portare la street art nei musei crea inevitabilmente un filtro, che anche in assenza di una bigliettazione è comunque costituito dal senso di intimidazione che i musei possono suscitare su chi non è abituato a frequentarli.


Sembra difficile escludere completamente la street art, così pervasiva e rilevante nel panorama contemporaneo, dal mondo che i musei dovrebbero studiare e raccontare.  E l’appeal della street art è qualcosa che molti musei hanno usato per cercare di attirare nuovo audience: è indubbio che la street art venga esposta per avvicinare nuovo pubblico ai musei, grazie anche alla sua forte capacità di parlare alla gente. Il risultato è il grande pubblico che si avvicina a queste esposizioni. Resta però da chiedersi chi sia veramente questo pubblico: si mantiene la democratizzazione tipica della street art?

Il rapporto fra musei e street art può essere visto come una questione di compromessi e ideologie irriconciliabili, o come una sfida i cui obiettivi sono trovare modalità innovative per conciliare l’arte dentro i musei e quella sulla strada. E per l’artista rimane la scelta fra essere completamente “libero” o realizzare delle opere diverse, collaborazioni ragionate o più meditative.

Piuttosto che semplicemente avvicinarsi alla street art riproponendola in una dimensione che, anche nei migliori tentativi, la sterilizza da parte del suo apporto creativo più caratteristico, una strada diversa per i musei potrebbe essere cercare di coglierne lo spirito. La street art infatti può insegnare molto sulla trasgressione, l’impegno politico e la condivisione dello spazio artistico con il pubblico.

I musei a loro volta potrebbero quindi riflettere su questo aspetto, non solo per rispettare gli scopi e le origini della street art, ma anche per capire come meglio comunicarla ai loro visitatori.

MEET – Centro per la cultura digitale

Finalmente in Italia, a Milano, dall’esperienza di Meet the Media Guru apre MEET un centro di innovazione tecnologica che ha come missione di contribuire a colmare il divario digitale nel nostro Paese.

È difficile parlare di tecnologia nel settore museale: a fronte di musei che hanno impostato molto sulla digitalizzazione delle collezioni e sulla tecnologizzazione dell’esperienza, la maggior parte dei musei – e non solo quelli di piccole dimensioni – hanno scarsa dimestichezza con un corretto uso del digitale. Infatti, come ci insegna MEET, il digitale, i big data, la tecnologia elettronica complessa (dal biotech, alla AI, alla georeferenziazione integrata, bit coin, block chain e chi più ne ha più ne metta) deve servire alla vita delle persone, al miglioramento della loro vita e delle loro esperienze. 

Per un museo, spesso, anche un sito web può essere una complicazione e molte delle applicazioni che l’industria o la ricerca universitaria hanno importato nei musei in fase prototipale non sono mai riuscite a soddisfare pienamente i bisogni e le aspettative di entrambe le parti: i musei e i suoi visitatori. 

Ora, dopo i tentativi della “grande distribuzione” di sposare una filosofia partecipatoria prettamente museale attraverso il gaming (chi si ricorda dei….. nintendo????), diverse start-up di giovani  professionisti del settore aiutati da colleghi grafici e informatici, stanno ottenendo notevole successo nello sviluppo di prodotti basati sulle collezioni di specifici musei e dei loro messaggi culturali in modo da andare incontro ai diversi linguaggi e alle diverse culture dei loro pubblici. 

MEET sarà in grado di far avanzare la cultura digitale anche nel mondo museale?

Noi abbiamo contribuito portando in Italia, attraverso Meet the Media Guru, Nancy Proctor (qui per vedere il talk in streaming)  e continueremo a proporre i nostri contatti fra i musei internazionali che secondo noi hanno un approccio modello al settore digitale.  

In ogni caso, benvenuto MEET e arrivederci a tutti sui loro canali streaming!

LEARNING TO CARE: SUSTAINABILITY BEYOND TRADITIONAL THRESHOLDS

LEARNING TO CARE: SUSTAINABILITY BEYOND TRADITIONAL THRESHOLDS

Being involved in a worldwide pandemic has taught us some insights that we can bring with us in our everyday work in and with museums. The two basic learnings are: how much we are all interconnected around the world and how much social limits impact on psychology and economics.

Travelling, embracing, touching has been limited or prohibited, but as soon as the ban has been partially lifted, we all have immediately felt a relieving sense of going back to “normality”. Actually, museums and cultural institutions will be among the few institutions not to go back to normality but to face an adaptation to something that has been called “new normal” and it is not clear why it has to be so just for them, regarding hygienic rules, distancing, number of people in the buildings. Sign that sometimes, the cultural field suffers from inferiority complex and accepts to be “more royalist than the king” in a relevance-suicide.

During the pandemic, museums around the world and, from my specific point of view, many of the almost 5.000 museums in Italy, demonstrated an unexpected vivacity and enthusiasm developing online activities and events and exploiting their social network channels due to the need to maintain some sort of relationship with their audiences, some times even finding a shortcut to try and connect with new targets (see the Uffizi profile on TIKTOK). But have they reach the goal of answering to people’s needs? In a study that we carried out in the midst of the quarantine about provisional fruition of cultural offers after the lockdown, on almost 1000 respondents from the audience side, the outcome was a request of sense and meaning on qualitative terms.

Wounds left by fear and distancing that from physical has really become social after months of reclusion, can effectively be healed also by museums’ cultural products if these are high quality and consistent with the museum mission (see the Museo Egizio video production), if they can call for some sort of sociality – although with limited groups and mainly open-air (see the activities of MAVS a small archaeological museum on lake Garda who has more than doubled the number of workshops with kids after the pandemic, because they have an impressive number of subscriptions), and if they demonstrate a fit relationship with contemporary issues.

It will be more and more difficult in facts to justify to a greater number of stakeholders the “reason” or the meaning of maintaining museums open if museums won’t learn to trespass their thresholds and if they won’t bring their activities outside of their walls.

The more museums will need to become sustainable and attract funds both from the public and the private sectors, the more they must learn to care about the people and the environment around them. They can be interesting to the private sector and to individual support if they start offering real services as libraries usually do: museums cannot lend objects – of course, or why not? A lot of hotels or public utility buildings can be interested in lending so-called “secondary goods” the storehouses of every museum are full of, following all the rules and prescriptions required plus a high rental fee. In a time of touristic strategic positioning, this is an interesting “weapon” to rely on in order to enrich the experience of a territory, among others.

They can call for further and diversified public support if they can organise programmes (post-school, art therapy, caregiving to elderly people or disable, immigrants/asylum seekers welcoming/training, qualification training for who lost their jobs, human rights and gender rights promotion) to fill the welfare gap many communities suffer about.

Museums can find several opportunities and enter corporate supply chains, if they start sustaining the European Green Deal not only in words but in actions, fostering recycling – also of displays – and relying on the circular economy, improving biodiversity in the parks or terraces around them (see the 2017 TATE Modern project with beekeepers).

As we can see, then, museums are not islands, as Kenneth Hudson used to say, but they can be nodes of a new cultural network at the base of social development and local advancement. It’s really time that museums begin to care about what is outside themselves since they are singular collectives of people, heads, opinions, ideas which belong to the world and we cannot allow that the “building-museum” or the institution-museum keeps them balmed inside.
Talking again about the king: the king is naked now, let’s dress up, go outside from the palace and start mixing with contemporary life.

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This article is part of the speech of soluzionimuseali-ims’ founder Maria Cristina Vannini during the BE MUSEUMER Conference – Museums and Covid19.

 

Coerenza e trasparenza alla base dei rapporti fra i musei e il loro pubblico

Coerenza e trasparenza alla base dei rapporti fra i musei e il loro pubblico

Quanto è importante nella vita di ciascuno di noi potersi fidare di chi ci sta accanto? Avere una fonte autorevole a cui rivolgersi per avere risposte ai propri dubbi e incertezze? 

Quanto è importante potersi affidare alle spiegazioni di un interlocutore riconosciuto e obiettivo?

 

La nostra società si dibatte fra l’individualismo ambizioso di chi pensa di sapere tutto su tutto e il timore di non essere in grado di cogliere tutte le molteplici connessioni che caratterizzano il nostro presente. I social media amplificano questo atteggiamento avvicinandoci a una miriade di informazioni di cui spesso non è facile verificare la veridicità e che il più delle volte sono in contraddizione fra di loro.

Il dibattito si trasforma la maggior parte delle volte in giustapposizioni faziose che non riescono ad arrivare al cuore delle questioni, tanto meno a raggiungere sintesi o soluzioni.

I musei hanno l’occasione di sfruttare il vuoto lasciato da molti mezzi di informazione e di posizionarsi come luoghi di dibattito e di approfondimento rispetto ai loro temi specifici che, se vogliamo guardare con attenzione, sono tutti molto contemporanei. Non esiste un museo, archeologico, scientifico, di storia naturale, di arte religiosa, per esempio, che non trattino tematiche rilevanti, perché non esiste un museo che non tratti dell’essere umano, della sua vita e del suo mondo o del suo modo di interagire con esso.

 

Il fatto poi, che i musei siano composti di teste pensanti cioè, come diciamo noi, che siano singolari collettivi fatti da diverse persone con il contributo di altre persone per la fruizione di altre persone ancora, permette loro di essere per natura luoghi di confronto e mediazione per l’elaborazione di contenuti che si rinnovano continuamente se non altro nel dibattito interno, pur non trovando spazio, spesso, nel percorso espositivo.
Fin qui non c’è quasi nulla di nuovo in ciò che stiamo dicendo ma vale la pena ribadirlo e dare anche nuove motivazioni a sostegno di una nuova definizione di museo che non sia omologante ma che permetta a ciascuno di autodefinirsi nel modo più compiuto possibile rispetto alla propria missione e al proprio pubblico.
Ciò che caratterizza i musei, dal nostro punto di vista, è essere degli ipermedia. Ogni museo possiede più canali di trasmissione di messaggi: l’ambiente, l’allestimento, gli apparati testuali e digitali interni ed esterni al museo stesso sono i più tradizionali, ma anche i servizi che il museo offre trasmettono un messaggio definito di come il museo intende il suo rapporto con i visitatori. Più rari, al momento, sono i punti di contatto che rendono questi canali dei veri e propri trasmettitori bidirezionali di comunicazione.

 

Concentriamoci però, per ora, sulla trasmissione perché farla bene sarebbe già un obiettivo importante da porsi. E cerchiamo di andare un poco più a fondo nel discorso della trasmissione.
Cosa manca ai musei per essere considerati fonti autorevoli di informazione? Non parliamo qui della loro rilevanza presso il pubblico, ma proprio del riconoscimento della loro affidabilità di fonti.

 

Alla base del processo di attribuzione e riconoscimento di autorità ci sono alcuni parametri psicologici fra cui la coerenza e la trasparenza. Questi due parametri in contesto etico, contesto a cui i musei spesso si richiamano, sono considerati valori. In entrambi i casi, coerenza e trasparenza costituiscono aspetti ontologici da cui i musei non possono prescindere.

  • Coerenza con i temi fondamentali alla base delle proprie collezioni: non si può più parlare di qualsiasi cosa senza dar prova di averne approfondita esperienza. Il ritorno alla competenza sarà sempre più necessario nella ricostruzione di un domani più consapevole.
  • Coerenza con la definizione di missione e con le strategie per realizzarla. Ogni museo è unico e particolare, prodotto socio culturale del momento in cui è stato fondato e della sua evoluzione: non si può assumere che una definizione univoca di missione possa sintetizzare le innumerevoli e sfaccettate realtà museali.
  • Coerente adesione dei componenti dei musei, dalla dirigenza a tutti coloro che ne sono coinvolti, allo “stile museale”.
  • Trasparenza nella costruzione dei messaggi, dimostrando la forza di non omettere gli errori – da cui si può imparare – e la molteplicità dei punti di vista a corollario della posizione presa. I musei sono essenzialmente delle istituzioni politiche, volute dalla politica, con la potenzialità di esprimere indicazioni di politiche: la storia scelta come prevalente non esclude le altre narrazioni che possono concorrere al dialogo.

 

In conclusione, evidenziamo come nello scenario odierno le istituzioni culturali abbiano l’opportunità di prendere parola e costruire nuove dinamiche relazionali con il pubblico basate sui valori di trasparenza e coerenza.

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Tate Modern: il brand che sorpassa il British Museum

Secondo i dati del 2018 la Tate Modern raggiunge 5,9 milioni di visitatori, superando così i 5,8 milioni del British Museum e guadagnandosi il primato come prima attrazione del Regno Unito.

É la prima volta dalla sua apertura, avvenuta nel 2000, che il museo raggiunge questo risultato.

Il British Museum, aperto nel 1753, vanta di un ricco passato e nel tempo ha sviluppato una forte reputazione e identità. Eppure negli ultimi decenni, mentre l’importanza della brand orientation per i musei assume una rilevanza strategica da non sottovalutare, il British Museum sembra appoggiarsi fermamente sulla sua consolidata rinomanza perseguendo una politica di marca poco mirata nel dichiarare in maniera trasparente unicità, differenza e valori.

E forse proprio per questo il giovane museo di arte moderna e contemporanea, collocato in un’ex centrale elettrica e costruito sotto la direzione architettonica di Herzog & De Meuron, sorpassa in un ventennio l’icona storica che ha definito a lungo l’immaginario legato alla parola museo.

Non è un caso che proprio TATE sia uno dei case studies più citati quando si parla di museum branding. A fare la differenza non é solo l’immagine coordinata ideata dallo studio di Wolff Olins, ma soprattutto il fatto che il museo abbia creato una precisa percezione nella mente dei visitatori che risulta coerente in ogni suo aspetto. 

In un mondo in cui differenziarsi diventa un imperativo per emergere nel mercato, é il brand a creare valore. Un valore per il pubblico che si trasforma in valore economico poiché in grado di attrarre nuovi visitatori, nuovi sponsor e fondi.

Un lavoro strategico quindi, quello della Tate e di molti altri musei inglesi (come quelli presenti nel grafico), dimostratosi un valido modello per incrementare l’attrattività e la qualità dei rapporti con gli stakeholders.

Anche soluzionimuseali-ims si occupa di Museum Branding.
In occasione della riapertura di Villa Bernasconi, una stupenda villa liberty collocata nel panorama di Cernobbio sul lago di Como, abbiamo svolto una analisi di brand position a conclusione dell’intero progetto di definizione del nuovo Brand Villa.

Sei interessato a sapere come costruire un brand efficace per il tuo museo?

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