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#Chatonthesofa: oltre il format

#Chatonthesofa: oltre il format

Sono passati alcuni mesi da quando il mondo ha dovuto fermarsi a causa di una pandemia globale, imponendoci di arrestare bruscamente la nostra quotidianità e costringendoci nelle nostre case. Per affrontare questo periodo di smarrimento e isolamento il team di soluzionimuseali-ims ha pensato di creare un format ad hoc, Chat on the sofa, per scambiare opinioni, idee e prospettive con ospiti internazionali sulla situazione che i musei e il mondo culturale più in generale stavano vivendo in quel momento. L’obiettivo era quello di scattare una fotografia della situazione durante la pandemia per i musei di tutto il mondo, per poi confrontarsi su come affrontare la ripresa delle attività e la riapertura.

L’idea del format nasce dalla necessità di rimanere al sicuro nelle proprie abitazioni, ma con la forte volontà da parte degli interlocutori di incontrarsi in modo informale, di confrontarsi amichevolmente e di creare una rete solidale tra operatori culturali. Da qui il termine Chat on the Sofa: benché separati da chilometri di distanza e impossibilitati ad incontrarsi di persona, gli ospiti si sono incontrati via diretta Instagram, uniti dalla passione per il mondo culturale e per il proprio lavoro e dalla speranza di una pronta ripresa.

Di certo la pandemia di Covid-19 ha lasciato un segno indelebile sulle nostre vite e ha cambiato per sempre il nostro rapporto con lo spazio, e in questo caso il rapporto con lo spazio museale, il quale va ripensato in termini di sicurezza e relazione con il pubblico.
Questo è stato uno dei topic principali delle video-interviste: come i musei hanno affrontato e reagito a questa crisi e quali saranno i loro prossimi passi, in una realtà completamente nuova e difficile da gestire.
Il confronto con realtà internazionali ci ha permesso di avere una visione più ampia di ciò che stava succedendo nel mondo, delineando approcci e problemi differenti ma anche molti punti in comune.

Una delle problematiche più impellenti per le realtà protagoniste delle Chat on the Sofa è sicuramente quella economica, in una situazione in cui il settore era già fortemente danneggiato. Alcuni musei hanno ricevuto aiuti statali o da fondi privati, altri rischiano la chiusura e avanzano con difficoltà.

Una questione emersa di frequente riguarda il ruolo del museo all’interno della comunità di riferimento, che siano nativi neozelandesi, abitanti delle favelas brasiliane o tribù della penisola arabica. Si tratta di un ruolo estremamente delicato, in cui il museo dovrebbe essere attore attivo e fare da ponte tra passato e presente, creando valore. 

Una via per affrontare la pandemia, intrapresa da molti dei musei citati durante le chiacchierate, seguendo anche un trend che ha caratterizzato la quasi totalità dei musei mondiali durante la quarantena, è stata quella di dare forte impulso alle attività digitali: da interviste a tutorial, da visite guidate con il direttore del museo a laboratori per grandi e piccini; le forze dei musei si sono concentrate nel fornire dei servizi di qualità per educare e raccontare contenuti, nonostante la chiusura fisica delle loro strutture. Strumenti che erano già a disposizione di tutti sono stati riscoperti e finalmente utilizzati, come con le Chat on the Sofa: l’isolamento forzato ci ha permesso di sentirci e vicini a luoghi e persone geograficamente distanti. 

I musei stanno esplorando ancora come utilizzare la tecnologia digitale, analizzando i progetti di successo e le reazioni del pubblico (qui una piccola guida al digital storytelling per i musei). La domanda, a cui ancora non abbiamo la risposta, è quindi come l’uso delle tecnologie per la fruizione e la comunicazione dei musei si svilupperà e in quale direzione, anche se possiamo dire con certezza che rappresentano un’eccellente opportunità di evoluzione per queste realtà. 

Per riassumere, dalle nostre interviste a 12 professionisti della cultura e dei musei emerge la necessità di ripensare il museo tradizionale, o di continuare su strade innovative, per mantenere la cultura viva, accessibile, in grado di sfruttare con consapevolezza gli strumenti digitali e creare un legame attivo con le comunità.

Le interviste di Chat on the Sofa sono reperibili sul canale IGTV di soluzionimuseali-ims e sono ora disponibili anche sul nostro canale YouTube.

Gli ospiti, che provengono dai quattro angoli del globo, sono stati i seguenti:

 

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I media nella cultura

Se l’ultima volta ci siamo interrogati su come i social media potessero giocare un ruolo importante all’interno delle azioni museali, oggi, di fronte a recenti eventi, diventa importante capire anche quale sia il ruolo dei musei inseriti in contesti di diffusione diversi da quelli tradizionali, come per esempio il videoclip musicale. Un cinema ridotto temporalmente ma amplificato nella diffusione, che può diventare strumento e arma di rappresentazione individuale e sociale.

È il caso del Louvre, che ha affittato i suoi spazi a icone internazionali della scena musicale come Beyoncé e Jay-Z per girare il loro nuovo videoclip: APESH*T.

Come preannunciato dal titolo della canzone, il pubblico è andato in visibilio. Le 95 milioni di views su Youtube lo confermano.

Una scelta pop e un modo, da quanto affermato da Anne-Laure Béatrix, direttrice delle relazioni esterne dell’istituzione museale a Le Monde, per avvicinare i giovani e tutte le persone che si sentono fortemente distaccate dalla cultura e arte racchiusa dal museo.

Proprio dal quotidiano francese nasce la polemica e ci si interroga sulla necessità del museo di utilizzare questi mezzi per farsi pubblicità. D’altronde questo tipo di interventi potrebbe essere considerato deleterio per arte e cultura in quanto sintomo di commercializzazione e passivo consumismo culturale.
Bisogna premettere che non è la prima volta che il Louvre affitta i suoi spazi per scopi cinematografici ( si veda per esempio 50 Sfumature di Grigio, I Puffi, The Dreamers, Il Codice da Vinci ecc.), eppure nessuno di questi ha creato tanto scandalo come il video rilasciato dai coniugi, che si sono firmati con il nome The Carters. La motivazione forse è da ricercarsi nella viralità che ha esposto il museo e le sue opere a nuove e molteplici interpretazioni.
Ma giunti nell’era in cui tutti possono fruire liberamente dei contenuti veicolati attraverso la rete, l’equazione popolare uguale mediocre diventa un misconcetto da scomporre.
Non bisogna dimenticare che il Louvre, oltre a essere il museo più visitato al mondo, svolge il suo ruolo seguendo tutte le funzioni dettate da ICOM e dunque può permettersi di aprirsi a nuove strade al fine di valorizzare il suo brand e includere una varietà di pubblico sempre maggiore.
Incoraggiati dal successo, il direttore del Louvre Jean Luc Martinez decide di aprire un tour ispirato al videoclip e il duo musicale chiede in prestito il Colosseo.

Ma ciò che mette al centro del dibattito culturale il videoclip è anche il fatto che quella delle due star musicali è un’operazione eminentemente artistica con un pregnante valore simbolico a livello sociale.
Le interpretazioni più diffuse di APESH*T vogliono che le danze sinuose e le inquadrature emblematiche attraverso cui la coppia afroamericana si muove fra le sale del museo non abbiano solo degli scopi estetici (seppure conseguiti eccezionalmente) ma siano un vero e proprio inserimento di una nuova forma d’arte nel kanon contemporaneo, a lungo negato alla comunità afroamericana. Presentandosi così come nuovi Napoleone e Josephine che si auto-incoronano davanti al popolo.

Beyonce e un gruppo di ballerine danzano sotto il dipinto di Jacques-Louis David “L’Incoronazione di Napoleone”.
Screenshot dal video su Youtube

L’estetizzazione, e ostentazione, del loro successo attraverso il video è tangibile, talvolta contestabile, ma esso riproduce anche dettagli e accostamenti inusuali in cui corpi di diverse sfumature di colore prendono il controllo dello spazio fisico e culturale, mentre la camera si sofferma su dipinti e sculture simbolo della cultura e bellezza occidentale, del potere e della carne. Sembra una rivoluzione inaspettata, lo stesso duo non può credere di avercela fatta (“Can’t believe we made it” canta Beyoncé in APES**T), e adesso si gode lo spettacolo.

Il video musicale assume un carattere polivalente che riesce perfettamente nel mescolare fini commerciali e creatività, cultura pop e cultura “alta”, intrattenendo e allo stesso tempo fornendo i segni per ricalcare le diverse sfaccettature della nostra epoca.
Recentemente un altro videoclip (sempre di un cantante afroamericano) ha fatto molto parlare di sé, proprio grazie alla capacità di questa arte di generare dei messaggi in codice attraverso il lavoro sinergico di musica, immagini e coreografia.
Rispetto a Beyoncé e Jay-Z, Donald Glover, in arte Childish Gambino, ci presenta un universo differente, dove sui neri ancora vige violenza, discriminazione.
Le discriminazioni razziali infatti sussistono, rivelandosi, soprattutto nell’America di Trump, un problema non ancora superato.

Secondo Paolo Armelli di Wired: “Il bilancio di “This Is America” è un ambivalente grido d’allarme: da una parte Glover denuncia i pericoli e la violenza che circondano le black community negli Stati Uniti, dall’altra sembra suggerire una specie di autocritica rispetto a quei modelli consumistici che annebbiano la vista di chi invece dovrebbe portare avanti valori più importanti, afroamericani in primis”
Tutto ciò richiama alla mente i neon di Glenn Ligon, che rappresentano questa dicotomia americana tra il sogno di prosperità ed equità e la difficile realtà esistente.
Come ci dimostra APESH*T, anche il museo, grazie a questo medium, può diventare il luogo in cui comunicare un messaggio specifico. Musica e immagini in movimento insieme possono essere strumenti potenti, pervasivi in tutti gli strati della società, per trasmettere un messaggio emblematico, che ha il gusto ambivalente di entertainment e denuncia sociale.
E l’istituzione museale, con le dovute cautele (riguardo in particolar modo la conservazione dei beni che ha in carico), se inserito come
co-protagonista di queste storie può farsi portatrice di inclusione e apertura verso le nuove generazioni e le nuove forme di diffusione.
Il videoclip, che si pone come obiettivo anche quello di mandare dei segnali precisi, può essere uno dei tanti mezzi con cui il museo può rigenerare la sua immagine, lasciandosi alle spalle la concezione che lo vedeva ingabbiato nella cristallizzazione del passato.
I suoi contenuti sono vivi, e si confrontano con i cambiamenti sociali del presente. I significati di cui sono portatrici le opere hanno un riscontro nell’attualitá e di riflesso l’istituzione stessa che le conserva si rivela il luogo adatto per instaurare un dialogo tra passato e modernità.

Il museo che si apre a queste forme di spettacolarizzazione non deve essere considerato semplicemente sfondo, set cinematografico ma scrigno di significati ancora influenti e rilevanti nella società contemporanea.
É ormai indubbio che Il museo debba sempre di più porsi in conversazione con il presente: non solo attraverso l’aggiornamento dei nuovi metodi di comunicazione interni al museo stesso, ma soprattutto partecipando attivamente alla vita culturale, politica e sociale della comunità. Questa partecipazione può provenire da programmi costruiti ad hoc dal museo, ma può anche nascere dall’ intreccio con scenari atipici per l’istituzione.
In questo contesto anche il museo diventa, sempre più, transmediale, un luogo il cui contenuto può essere, come direbbe Francesco Casetti, rilocato su diverse piattaforme e forme di comunicazione.

Street Art nei musei

Anche i meno attenti fra i nostri concittadini milanesi sapranno che fino al 12 aprile si é svolta presso il Mudec-Museo delle Culture la mostra “Banksy – A visual protest”, l’ultima in una serie di grandi mostre internazionali che stanno portando la street art all’interno dei musei.
In molti avranno infatti notato i manifesti pubblicitari raffiguranti il famigerato “Lanciatore di fiori” che il Mudec ha diffuso per strade e metropolitana. Proprio questa campagna pubblicitaria è stata recentemente al centro di un contenzioso perché Pest Control Office Limited, la società che si occupa di gestire il brand Banksy, ha citato in giudizio 24 Ore Cultura per violazione di Copyright e vendita non autorizzata di merchandising.

Non è questo un evento eccezionale: non è infatti la prima volta che Banksy fa cause a mostre non autorizzate come quella del Mudec. Sul suo stesso sito è presente una sezione in cui sono elencate tutte le mostre “FAKE”, realizzate senza il coinvolgimento – e il permesso – dell’artista.

Screenshot da www.bansky.co.uk

Diverse persone hanno fatto notare l’incongruenza, da parte di un’artista da sempre contro il copyright, dell’utilizzo di questo stesso sistema per monitorare la diffusione delle sue opere.

E lo stesso Banksy è consapevole di questo aspetto: in una chat privata, successivamente pubblicata su Instagram, commenta di non essere la persona adatta a lamentarsi di chi utilizza immagini senza chiedere permesso (“not sure i’m the best person to complain about people putting up pictures without getting permission”).

Non è difficile immaginare come queste azioni legali abbiano soprattutto l’obiettivo di segnalare la distanza dell’artista da queste mostre piuttosto che ottenere vere limitazioni o chiusure. Come molte delle azioni di Banksy, il loro aspetto simbolico e sensazionalistico è da prendere in considerazione tanto quanto i loro contenuti ed effetti.
Sorgono dei quesiti ovvi a seguito di questo episodio: chi abbia diritto ad utilizzare le immagini, o la congruenza delle azioni di Banksy. Ma la posizione ideologica che ha spinto Banksy a rifiutare la commercializzazione della sua arte è facilmente ricollegabile alle radici più profonde della street art. E la questione che vogliamo porre anche a voi riguarda proprio il rapporto fra arte di strada, musei e mondo dell’arte in generale.

Caratteristica principale della street art è infatti primariamente la sua collocazione, in alcuni casi più caratterizzante, per l’interpretazione dell’opera, dei contenuti stessi. La scelta della collocazione avviene sia per ragioni di opportunità che per ragioni ideologiche: la street art prende infatti spesso una posizione volutamente anti-istituzionale, a cui si unisce l’aspetto egalitario dato dal trovarsi sulla strada, in una posizione accessibile a tutti e nei luoghi più lontani dal potere.

La street art è quindi un’arte senza proprietari, senza curatela e senza conservazione. Ma soprattutto un’arte senza committenti, e un’arte – di fatto – illegale.

Dato questo, sorgono dubbi rispetto al posto che l’arte di strada può avere all’interno dei musei. È possibile per la street art trovare uno spazio in questi contesti, o così facendo perde completamente di significato? La sua collocazione – e la sua posizione anti istituzionale – sono imprescindibili, o si può negoziare una via di mezzo?

Il rapporto fra street art e musei non è una novità. Arte di strada e graffiti art hanno trovato uno spazio all’interno dell’arte contemporanea, anche soltanto attraverso la commistione di tecniche e linguaggi (basti pensare ad artisti come Keith Hering).  E in diverse occasioni artisti di strada hanno collaborato con musei e altre istituzioni.

“Street Art”, Tate Modern, 2008

Fra gli esempi più recenti il più importante è forse la mostra “Street Art” che si è svolta presso la Tate Modern di Londra nel 2008, in occasione della quale ai diversi artisti coinvolti è stato chiesto di realizzare opere sulla facciata esterna del museo – già una forma di compromesso fra l’arte di strada e le istituzioni museali.

Faile, fra gli artisti coinvolti nell’esposizione, rispetto a questo nuovo rapporto fra arte e musei aveva dichiarato che “At least it’s no longer undermined as something on the street, something without value. Money fuels interest (…)” Per molti artisti il rapporto con i musei, e una validazione da parte del mondo dell’arte, è infatti strettamente collegato con il rapporto con gallerie, collezionisti e quindi con il denaro. Questo è un altro degli aspetti che rende complicati, e apparentemente irriconciliabili, i rapporti fra questi due mondi. Come molti altri artisti, lo stesso Banksy ha negoziato il suo rapporto con il mercato dell’arte, vendendo le sue opere solo in aste i cui ricavi vadano in beneficenza – o per 60$ a Central Park, nel corso di un’altra azione ad effetto. Ben Eine, street artist connazionale di Banksy, si identifica invece pubblicamente come un “working street artist” che accompagna, ai lavori fatti per strada, lavori nello “stile dello street art” che vengono venduti in gallerie e grazie a cui ricava fondi per finanziare i lavori fatti in strada.

Ma l’ingresso della street art nei sistemi convenzionali – e istituzionali- di diffusione dell’arte sembra in ogni caso inevitabile: i tentativi di Banksy – pratici o simbolici- di estraniarsi da questo sistema fanno poco per fermare il fiume in piena che è il Banksy effect – lo pseudonimo di un artista anonimo e controcorrente è anche un brand che vale milioni di dollari.

MrSavethewall_Street Art is Dead
Immagine da Deodato Gallery, rilevata da questo interessante articolo: “Street Art is dead: Mr. Savethewall decapita Bansky”

Non mancano però grida alla “morte della street art”.  Lo street artist italiano Mr. Savethewall ha lavorato sui manifesti della mostra del Mudec aggiungendo una riproduzione di “Davide con la testa di Golia”  di Caravaggio (in cui Golia indossa la maschera da scimmia di Banksy) accompagnato alla scritta “street art without street is just “art”!”

Va però preso in considerazione il terzo elemento in questa dinamica museo-artisti: il pubblico. La street art nei musei può essere un momento di validazione per l’artista, o qualcosa che avviene suo malgrado. Ma una nuova collocazione cambia fondamentalmente le modalità con cui il pubblico si relaziona all’arte.

Abbiamo già detto come la vicinanza al pubblico e l’assenza di una distanza – sia fisica che psicologica – siano fra gli elementi essenziali della street art. Trovandosi nel luogo pubblico per eccellenza è capace di avvicinarsi a chiunque, senza filtri, raggiungendo anche coloro che non cercherebbero intenzionalmente l’arte e comunicando con un pubblico estremamente più ampio di quello che frequenta i musei.

Portare la street art nei musei crea inevitabilmente un filtro, che anche in assenza di una bigliettazione è comunque costituito dal senso di intimidazione che i musei possono suscitare su chi non è abituato a frequentarli.


Sembra difficile escludere completamente la street art, così pervasiva e rilevante nel panorama contemporaneo, dal mondo che i musei dovrebbero studiare e raccontare.  E l’appeal della street art è qualcosa che molti musei hanno usato per cercare di attirare nuovo audience: è indubbio che la street art venga esposta per avvicinare nuovo pubblico ai musei, grazie anche alla sua forte capacità di parlare alla gente. Il risultato è il grande pubblico che si avvicina a queste esposizioni. Resta però da chiedersi chi sia veramente questo pubblico: si mantiene la democratizzazione tipica della street art?

Il rapporto fra musei e street art può essere visto come una questione di compromessi e ideologie irriconciliabili, o come una sfida i cui obiettivi sono trovare modalità innovative per conciliare l’arte dentro i musei e quella sulla strada. E per l’artista rimane la scelta fra essere completamente “libero” o realizzare delle opere diverse, collaborazioni ragionate o più meditative.

Piuttosto che semplicemente avvicinarsi alla street art riproponendola in una dimensione che, anche nei migliori tentativi, la sterilizza da parte del suo apporto creativo più caratteristico, una strada diversa per i musei potrebbe essere cercare di coglierne lo spirito. La street art infatti può insegnare molto sulla trasgressione, l’impegno politico e la condivisione dello spazio artistico con il pubblico.

I musei a loro volta potrebbero quindi riflettere su questo aspetto, non solo per rispettare gli scopi e le origini della street art, ma anche per capire come meglio comunicarla ai loro visitatori.

LEARNING TO CARE: SUSTAINABILITY BEYOND TRADITIONAL THRESHOLDS

LEARNING TO CARE: SUSTAINABILITY BEYOND TRADITIONAL THRESHOLDS

Being involved in a worldwide pandemic has taught us some insights that we can bring with us in our everyday work in and with museums. The two basic learnings are: how much we are all interconnected around the world and how much social limits impact on psychology and economics.

Travelling, embracing, touching has been limited or prohibited, but as soon as the ban has been partially lifted, we all have immediately felt a relieving sense of going back to “normality”. Actually, museums and cultural institutions will be among the few institutions not to go back to normality but to face an adaptation to something that has been called “new normal” and it is not clear why it has to be so just for them, regarding hygienic rules, distancing, number of people in the buildings. Sign that sometimes, the cultural field suffers from inferiority complex and accepts to be “more royalist than the king” in a relevance-suicide.

During the pandemic, museums around the world and, from my specific point of view, many of the almost 5.000 museums in Italy, demonstrated an unexpected vivacity and enthusiasm developing online activities and events and exploiting their social network channels due to the need to maintain some sort of relationship with their audiences, some times even finding a shortcut to try and connect with new targets (see the Uffizi profile on TIKTOK). But have they reach the goal of answering to people’s needs? In a study that we carried out in the midst of the quarantine about provisional fruition of cultural offers after the lockdown, on almost 1000 respondents from the audience side, the outcome was a request of sense and meaning on qualitative terms.

Wounds left by fear and distancing that from physical has really become social after months of reclusion, can effectively be healed also by museums’ cultural products if these are high quality and consistent with the museum mission (see the Museo Egizio video production), if they can call for some sort of sociality – although with limited groups and mainly open-air (see the activities of MAVS a small archaeological museum on lake Garda who has more than doubled the number of workshops with kids after the pandemic, because they have an impressive number of subscriptions), and if they demonstrate a fit relationship with contemporary issues.

It will be more and more difficult in facts to justify to a greater number of stakeholders the “reason” or the meaning of maintaining museums open if museums won’t learn to trespass their thresholds and if they won’t bring their activities outside of their walls.

The more museums will need to become sustainable and attract funds both from the public and the private sectors, the more they must learn to care about the people and the environment around them. They can be interesting to the private sector and to individual support if they start offering real services as libraries usually do: museums cannot lend objects – of course, or why not? A lot of hotels or public utility buildings can be interested in lending so-called “secondary goods” the storehouses of every museum are full of, following all the rules and prescriptions required plus a high rental fee. In a time of touristic strategic positioning, this is an interesting “weapon” to rely on in order to enrich the experience of a territory, among others.

They can call for further and diversified public support if they can organise programmes (post-school, art therapy, caregiving to elderly people or disable, immigrants/asylum seekers welcoming/training, qualification training for who lost their jobs, human rights and gender rights promotion) to fill the welfare gap many communities suffer about.

Museums can find several opportunities and enter corporate supply chains, if they start sustaining the European Green Deal not only in words but in actions, fostering recycling – also of displays – and relying on the circular economy, improving biodiversity in the parks or terraces around them (see the 2017 TATE Modern project with beekeepers).

As we can see, then, museums are not islands, as Kenneth Hudson used to say, but they can be nodes of a new cultural network at the base of social development and local advancement. It’s really time that museums begin to care about what is outside themselves since they are singular collectives of people, heads, opinions, ideas which belong to the world and we cannot allow that the “building-museum” or the institution-museum keeps them balmed inside.
Talking again about the king: the king is naked now, let’s dress up, go outside from the palace and start mixing with contemporary life.

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This article is part of the speech of soluzionimuseali-ims’ founder Maria Cristina Vannini during the BE MUSEUMER Conference – Museums and Covid19.

 

Coerenza e trasparenza alla base dei rapporti fra i musei e il loro pubblico

Coerenza e trasparenza alla base dei rapporti fra i musei e il loro pubblico

Quanto è importante nella vita di ciascuno di noi potersi fidare di chi ci sta accanto? Avere una fonte autorevole a cui rivolgersi per avere risposte ai propri dubbi e incertezze? 

Quanto è importante potersi affidare alle spiegazioni di un interlocutore riconosciuto e obiettivo?

 

La nostra società si dibatte fra l’individualismo ambizioso di chi pensa di sapere tutto su tutto e il timore di non essere in grado di cogliere tutte le molteplici connessioni che caratterizzano il nostro presente. I social media amplificano questo atteggiamento avvicinandoci a una miriade di informazioni di cui spesso non è facile verificare la veridicità e che il più delle volte sono in contraddizione fra di loro.

Il dibattito si trasforma la maggior parte delle volte in giustapposizioni faziose che non riescono ad arrivare al cuore delle questioni, tanto meno a raggiungere sintesi o soluzioni.

I musei hanno l’occasione di sfruttare il vuoto lasciato da molti mezzi di informazione e di posizionarsi come luoghi di dibattito e di approfondimento rispetto ai loro temi specifici che, se vogliamo guardare con attenzione, sono tutti molto contemporanei. Non esiste un museo, archeologico, scientifico, di storia naturale, di arte religiosa, per esempio, che non trattino tematiche rilevanti, perché non esiste un museo che non tratti dell’essere umano, della sua vita e del suo mondo o del suo modo di interagire con esso.

 

Il fatto poi, che i musei siano composti di teste pensanti cioè, come diciamo noi, che siano singolari collettivi fatti da diverse persone con il contributo di altre persone per la fruizione di altre persone ancora, permette loro di essere per natura luoghi di confronto e mediazione per l’elaborazione di contenuti che si rinnovano continuamente se non altro nel dibattito interno, pur non trovando spazio, spesso, nel percorso espositivo.
Fin qui non c’è quasi nulla di nuovo in ciò che stiamo dicendo ma vale la pena ribadirlo e dare anche nuove motivazioni a sostegno di una nuova definizione di museo che non sia omologante ma che permetta a ciascuno di autodefinirsi nel modo più compiuto possibile rispetto alla propria missione e al proprio pubblico.
Ciò che caratterizza i musei, dal nostro punto di vista, è essere degli ipermedia. Ogni museo possiede più canali di trasmissione di messaggi: l’ambiente, l’allestimento, gli apparati testuali e digitali interni ed esterni al museo stesso sono i più tradizionali, ma anche i servizi che il museo offre trasmettono un messaggio definito di come il museo intende il suo rapporto con i visitatori. Più rari, al momento, sono i punti di contatto che rendono questi canali dei veri e propri trasmettitori bidirezionali di comunicazione.

 

Concentriamoci però, per ora, sulla trasmissione perché farla bene sarebbe già un obiettivo importante da porsi. E cerchiamo di andare un poco più a fondo nel discorso della trasmissione.
Cosa manca ai musei per essere considerati fonti autorevoli di informazione? Non parliamo qui della loro rilevanza presso il pubblico, ma proprio del riconoscimento della loro affidabilità di fonti.

 

Alla base del processo di attribuzione e riconoscimento di autorità ci sono alcuni parametri psicologici fra cui la coerenza e la trasparenza. Questi due parametri in contesto etico, contesto a cui i musei spesso si richiamano, sono considerati valori. In entrambi i casi, coerenza e trasparenza costituiscono aspetti ontologici da cui i musei non possono prescindere.

  • Coerenza con i temi fondamentali alla base delle proprie collezioni: non si può più parlare di qualsiasi cosa senza dar prova di averne approfondita esperienza. Il ritorno alla competenza sarà sempre più necessario nella ricostruzione di un domani più consapevole.
  • Coerenza con la definizione di missione e con le strategie per realizzarla. Ogni museo è unico e particolare, prodotto socio culturale del momento in cui è stato fondato e della sua evoluzione: non si può assumere che una definizione univoca di missione possa sintetizzare le innumerevoli e sfaccettate realtà museali.
  • Coerente adesione dei componenti dei musei, dalla dirigenza a tutti coloro che ne sono coinvolti, allo “stile museale”.
  • Trasparenza nella costruzione dei messaggi, dimostrando la forza di non omettere gli errori – da cui si può imparare – e la molteplicità dei punti di vista a corollario della posizione presa. I musei sono essenzialmente delle istituzioni politiche, volute dalla politica, con la potenzialità di esprimere indicazioni di politiche: la storia scelta come prevalente non esclude le altre narrazioni che possono concorrere al dialogo.

 

In conclusione, evidenziamo come nello scenario odierno le istituzioni culturali abbiano l’opportunità di prendere parola e costruire nuove dinamiche relazionali con il pubblico basate sui valori di trasparenza e coerenza.

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Giornata Mondiale dell’Ambiente: i musei più green

CHE COS’È UN MUSEO GREEN?

Possiamo definire museo “green”, un museo che incorpora concetti di sostenibilità nelle sue operazioni, programmazione e strutture. Alcuni risiedono in un edificio caratterizzato da un’architettura e tecnologia sostenibili e molto spesso si impegnano ad aumentare la consapevolezza del pubblico sulla crisi climatica, sulla terra e i suoi limiti e di come le azioni invidivuali e collettive la influenzano.

Come riportato da Iberdrola: “I musei sostenibili del 21 ° secolo sono efficienti dal punto di vista energetico, gestiti in modo sostenibile e sensibilizzano l’opinione pubblica sulle questioni ambientali.”
Come istituzioni investite di fiducia da parte del pubblico, i musei possono usare la loro posizione per creare una cultura della sostenibilità.

Noi crediamo, insieme ad altri studiosi e professionisti, che l’attenzione alla sostenibilità sia un modo per i musei di essere rilevanti nel 21° secolo.

I MUSEI ECOSOSTENIBILI NEL MONDO

Abbiamo parlato in passato di musei e scelte consapevoli, ma per la Giornata Mondiale dell’Ambiente 2020 abbiamo deciso di fare una lista con alcuni dei musei che si impegnano attraverso le loro azioni per promuovere un futuro ecosostenibile.

 

Museo del Prado (Spagna)

Australian Museum  (Australia)

The Horniman Museum&Gardens (Inghilterra)

Museum of Tomorrow in Rio de Janeiro (Brasile)

Ocean Museum in Biarritz (Francia)

Panama Biomuseum (Panama)

Field Museum in Chicago (Stati Uniti)

Jockey Club Museum of Climate Change di Hong Kong (Cina)

Tate (Inghilterra)

 

Per quanto riguarda il panorama nazionale non possiamo non citare il lavoro svolto da:

Museo delle Scienze (MuSe) di Trento

Explora – il Museo dei Bambini di Roma

MART di Rovereto

 

Nella nostra lista inoltre includiamo i musei che hanno ricevuto una Special Commendation for Sustainability dalla giuria di European Museum of the Year Award. Introdotto per la prima volta nel 2015, il premio viene assegnato a un museo che ha dimostrato un alto impegno nello sviluppo di iniziative legate alle attitudini ecologiche, riducendo l’impatto ambientale e riflettendo la diversità della sua società, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie necessità. Il premio é sponsorizzato da MEYVAERT.

  • World Nature Forum, Svizzera (2019)
    Il World Nature Forum affronta una delle questioni più importanti per l’umanità nel 21 ° secolo: l’impatto dei cambiamenti climatici. Attraverso le sue eccellenti mostre, progetti scientifici e programmi educativi, rivela come i cambiamenti climatici stanno influenzando il ghiacciaio Jungfrau-Aletsch, una fonte d’acqua per l’agricoltura, non solo per la regione delle Alpi svizzere ma per gran parte dell’Europa.
  • Vapriikki Museum Centre, Tampere, Finlandia (2018)
    Fornisce un modello per i musei di tutto il mondo: oltre a servire le sue comunità locali questo museo è stato premiato per il suo concetto unico di creare un’istituzione culturale socialmente responsabile, razionale, economicamente sostenibile, professionale, unita dal principio del lavoro collaborativo.
  • Visitor Centre of the Swiss Ornithological Institute Sempach, Svizzera (2017)
    Il centro ha ricevuto l’Encomio speciale della giuria per la sostenibilità del il suo approccio innovativo relativo alla sensibilizzazione del pubblico sulle specie in pericolo e per la creazione di un edificio e un ambiente altamente sostenibili sia per gli uccelli che per i visitatori.
  • Museum of Bibracte, Mont Beuvray, Francia (2016)
    Il museo, incentrato sulla civiltà celtica, è impegnato nella sostenibilità ambientale e sociale promuovendo la gestione intelligente del sito naturale, preservando i paesaggi, dando la priorità alle attrezzature a bassa energia e sviluppando progetti per l’impiego a lungo termine in alcuni tipi di lavoro, con un programma di attività rivolte alla comunità locale.
  • The Finnish Nature Centre Haltia, Haltia, Finlandia (2015)
    Il Centro è stato riconosciuto per il suo lavoro di educazione ambientale, attraverso il quale incoraggia i giovani a uscire nella natura e ad impegnarsi in attività eco-compatibili. Inoltre l’edificio di Haltia è stato elogiato per la sua eco-efficienza e la sua partnership ben progettata tra uomo e natura.

Cliccando qui potete anche trovare la lista dei musei certificati LEED (Leadership in Energy and Environmental Design).

SOSTENIBILITÀ E CSR

Una ricerca Accenture ha rivelato che i consumatori, di tutte le generazioni, si preoccupano di ciò che le compagnie dicono e di come agiscono. La stessa ricerca afferma che più di sei giovani consumatori su dieci considerano attentamente i valori etici e l’autenticità di un’azienda prima di acquistare i loro prodotti. Per questo, la cultura della sostenibilità comincia a farsi strada, ancora prima che nelle istituzioni culturali, nelle aziende rientrando nelle strategie di Corporate Social Responsibility (CSR). Attivare una brand reputation consapevole e attenta alle tematiche ambientali può essere la chiave per agire anche a livello aziendale su una tematica delicata ma necessaria per il futuro delle prossime generazioni.

 

Una perfetta simbiosi di pratiche attente all’ambiente legate a un museo d’impresa la si trova nel Museo Salvatore Ferragamo, “il primo museo aziendale Green d’Italia”.

In questi giorni abbiamo fatto domanda per diventare membri del Climate Heritage Network. Chi ci segue da tempo sa che quello della sostenibilità é un tema a cui teniamo molto e oggi rinnoviamo il nostro impegno nel voler contribuire alla lotta al cambiamento climatico lavorando sulle potenzialità dell’ambito culturale.

 

“Museums hold in one body the diverse physical and intellectual resources, abilities, creativity, freedom, and authority to foster the changes the world needs most.”

Sarah Sutton

Convenzione di Faro: intervista a Luisella Pavan-Woolfe

L’Italia, con la sospensione della ratifica della Convenzione di Faro, blocca la possibilità di promuovere una nuova visione e un nuovo rapporto tra patrimonio culturale, comunità e diritti umani.

Ne parliamo con Luisella Pavan-Woolfe, direttrice del Consiglio d’Europa Ufficio di Venezia e autrice di un nuovo volume che presenta i contenuti e commenta la portata innovatrice della Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul Valore del Patrimonio Culturale per la Società, nonché le strategie elaborate per la sua implementazione, tracciando un bilancio del contesto italiano.

Dottoressa Pavan-Woolfe, dal 2015 Lei è la direttrice dell’ufficio di Venezia del Consiglio d’Europa e, da lì, si è impegnata molto per diffondere la conoscenza della Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul valore del Patrimonio Culturale per la società, meglio conosciuta come la Convenzione di Faro e per la sua ratifica.
A metà maggio scorso, però, il processo di ratifica da parte del Governo italiano si è nuovamente bloccato. Si è fatta un’idea delle motivazioni?

LPW: La Convenzione, presentata e aperta alle firme degli Stati a Faro in Portogallo nel 2005, è entrata in vigore nel 2011 ed è stata firmato dall’Italia nel 2013.
Durante gli ultimi mesi del 2017, si è assistito ad un intensificarsi dei lavori parlamentari: l’obbiettivo era chiaramente di concludere l’iter di ratifica, il che purtroppo non e’ stato possibile realizzare a causa del termine della legislatura. 
I lavori ripresi nel 2018 hanno conosciuto una nuova battuta d’arresto lo scorso marzo per la volontà espressa da parte del Senato di ulteriori approfondimenti. 
Il cambio di governo e i nuovi equilibri in seno a Camera e Senato possono aver fatto scaturire dubbi e considerazioni anche di natura politica sul disegno di legge.
Il mio augurio è che tali questioni, tecniche o politiche esse siano, vengano presto affrontate e risolte poiché la Convenzione già da tempo viene apprezzata e implementata nel nostro paese da comuni e regioni di diversa maggioranza politica, riconoscimento questo dei valori universali di democrazia e coesione sociale, e della centralità dei diritti culturali e della salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale per la società che la convenzione veicola. 
Lo stesso Ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, ha sottolineato quanto i principi e valori ispiratori della Convenzione siano già presenti anche nell’attività ministeriale, lasciando intendere, mi sembra, come gli attuali impedimenti alla ratifica siano superabili.

La Convenzione di Faro è un “accordo quadro”: a seguito della ratifica il governo e il ministero devono dar vita a un quadro normativo nazionale che definisca il patrimonio come oggetto dei diritti del singolo individuo e attivare meccanismi di monitoraggio e controllo. Pensa che sia stato l’aspetto economico a bloccare nuovamente il processo di ratifica?

LPW: Come giustamente sottolineato, questa è una convenzione quadro, la quale indica una serie di obiettivi lasciando agli stati un’ampia libertà di scelta sui tempi e sui modi in cui perseguirli. 
L’attuale disegno di legge prevede sì degli oneri di attuazione, in realtà minimi (un milione di euro all’anno) ma questi, in caso di necessità, possono subire delle variazioni attraverso un decreto da parte del Ministro dell’economia e delle finanze.
Tenderei pertanto a credere che questa non sia tra le principali cause dell’arresto dell’iter di ratifica. 

Nel Suo libro “Il valore del Patrimonio culturale per la società e le comunità – La Convenzione di Faro fra teoria e prassi” edito per LINEA edizioni, riporta alcuni esempi di progetti attuati nei Paesi che hanno già ratificato la Convenzione. Quali sono gli aspetti più interessanti di questi progetti che potrebbero portare ad una riconsiderazione della ratifica?

LPW: Nonostante queste realtà siano molto differenti tra loro, poiché calate in contesti storico-sociali eterogenei, da tutte (si tratti di Marsiglia, Fontecchio, Viscri o Venezia) emerge chiaramente il ruolo cardine svolto dalle comunità patrimoniali, veri e propri “ponti” tra le esigenze delle amministrazioni da una parte e degli abitanti dall’altra. La condivisione di responsabilità per la tutela del patrimonio culturale ha reso partecipi, in questi differenti contesti, tutte le parti in gioco, diffondendo la consapevolezza dell’importanza della conservazione, protezione e trasmissione del patrimonio culturale alle generazioni future e rivitalizzando la memoria delle comunità, delle tradizioni, dei monumenti e dei luoghi.
Questa nuova visione del rapporto tra patrimonio culturale e le comunità che lo vivono e custodiscono, svela la forte interconnessione che esiste tra la tutela dei beni culturali e il rispetto dei diritti umani. I diritti culturali, ed in particolare il diritto all’accesso e alla fruizione del patrimonio culturale, vengono così visti come diritti fondamentali di ogni individuo a pari titolo dei diritti civili, politici e sociali. Al tempo stesso un uso sociale, democratico, coesivo ed inclusivo  del patrimonio, porta ad una migliore qualità della vita e un’accresciuta conoscenza del territorio a livello collettivo.

I Paesi che hanno già ratificato la Convenzione sono tutti Paesi del blocco ex sovietico. Pensa che sia motivato da un approccio differente alla cultura e alle sue finalità? 

LPW: Ad un livello generale, se guardiamo ai 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, notiamo come il cammino della Convenzione sia diversificato e ancora in divenire a 14 anni dal suo lancio: 25 paesi l’hanno firmato e di questi 18, al momento, l’hanno ratificata.
Molti tra i paesi  dell’Europa occidentale più popolosi e ricchi, ad esempio Francia, Germania e Gran Bretagna, non l’hanno ad oggi neppure firmata.
Austria, Finlandia, Lussemburgo, Norvegia e Portogallo l’hanno però ad oggi ratificata. Italia, Spagna, San Marino, Svizzera e Belgio l’hanno firmata e non ancora ratificata. 

Questo è in contrasto con quanto avvenuto con molti paesi del blocco ex sovietico. 
La motivazione è né univoca né casuale. Da un lato possiamo notare la difficoltà riscontrata da alcuni stati ad inserire, in maniera coerente e organica con la propria legislazione esistente, i principi “rivoluzionari” portati dalla Convenzione, i quali spostano l’attenzione dalla consolidata opera di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale al diritto dei cittadini alla partecipazione culturale. Dall’altro, bisogna tenere presente che la convenzione ribadisce come il patrimonio debba e possa essere strumento di democrazia, costruzione di pace e di coesione sociale. Questo può aver fatto maggiormente leva tra i paesi dei Balcani occidentali che hanno vissuto un conflitto fratricida in tempi non lontani, un conflitto durante il quale il patrimonio culturale – dal ponte di Mostar alla biblioteca di Sarajevo – era divenuto strumento di contrapposizione etnica e oggetto di distruzione identitaria.

Nel Suo libro sono riportati anche progetti italiani che si sono ispirati a “Faro”. Non pensa che, in fondo, il Sistema Museale Nazionale, che prevede un forte coinvolgimento dei pubblici e dei territori, vada già nella direzione indicata dalla Convenzione di Faro?

LPW: Sono pienamente d’accordo. Molte delle esperienze italiane e internazionali presenti nel volume testimoniano progetti e iniziative che hanno origine ben prima della nascita della Convenzione. La raccolta e la messa in rete di tutte queste preziose esperienze, secondo i principi e le raccomandazioni della Convenzione, le fa divenire buone pratiche fruibili e replicabili in diversi contesti. In un paese come il nostro in cui, secondo i dati di un recente Eurobarometro, il tasso di partecipazione alla vita culturale è tra i più bassi d’Europa, perseguire il potenziamento delle sinergie fra pubbliche istituzioni, cittadini, abitanti e associazioni mettendo a sistema quanto già esistente, risulta fondamentale. Esistono inoltre Piani d’azione biennali per la creazione di reti di buone prassi e di comunità, che vanno proprio in questo senso.

Cosa pensa si possa fare, adesso? Come si aspetterebbe che reagisse la comunità culturale italiana?

LPW: Mi auguro innanzitutto che l’iter parlamentare riprenda e che l’Italia possa ratificare in tempi brevi la convenzione. Darsi un quadro legislativo certo non potrebbe che consolidare i principi della convenzione nella prassi di istituzioni e società civile e supportare le iniziative spontanee di associazioni volontarie, istituzioni locali e comunità patrimoniali.
La ratifica della Convenzione è una tappa importante del percorso intrapreso in modo spontaneo da molti in Italia.  
La sede italiana del Consiglio d’Europa continuerà la sua opera di sensibilizzazione nei confronti di cittadini, attori della comunità culturale italiana e istituzioni. Tra le varie attività portate avanti, ricordo che anche quest’anno a livello nazionale stiamo coordinando l’organizzazione di Passeggiate Patrimoniali in particolare durante le Giornate europee del Patrimonio. Questi strumenti della Convenzione sono speciali percorsi tematici che, superando la tradizionale modalità della visita guidata e interpretando il diritto al patrimonio culturale definito nella Convenzione di Faro, consentono ai partecipanti di scoprire e/o riscoprire un territorio attraverso gli occhi e le voci di chi lo vive. Essendo realizzate direttamente da cittadini, associazioni ed istituzioni legate ad un certo luogo ed ivi operanti, favoriscono una comprensione più profonda del patrimonio, la sua valorizzazione e una fruizione più sostenibile. Il programma è cresciuto di anno in anno grazie alla collaborazione con la Federazione italiana dei club e centri per l’UNESCO (FICLU) e alla pubblicizzazione da parte del Ministero dei beni e delle attività culturali (MiBAC). Da quest’anno si avvale anche del supporto e partecipazione di Federculture e della Rete WIGWAM. In alcune delle passeggiate proposte durante le Giornate Europee del Patrimonio verranno coinvolti anche alcuni Parlamentari che si stanno adoperando per la ratifica della Convenzione.
Non posso infine che invitare i numerosi operatori del settore culturale italiano a far propri i principi e valori della convenzione, implementarli attraverso le rispettive attività e attivare le  proprie reti di contatti per una ripresa finalmente conclusiva dei lavori parlamentari di ratifica della convenzione. 

 

BIOGRAFIA

Nata a Trieste, Luisella Pavan-Woolfe ha studiato a Venezia e negli Stati Uniti e si è laureata in Scienze Politiche magna cum laude all’Università di Padova. In tale sede universitaria ha lavorato successivamente come assistente di ruolo presso la cattedra di diritto anglo-americano.

In qualità di funzionario della Commissione Europea ha sviluppato nuove politiche e legislazioni nelle aree della protezione dell’ambiente, dei trasporti, dell’uguaglianza tra gli uomini e le donne e del contrasto alle discriminazioni. Ha inoltre gestito i fondi strutturali dell’Unione europea finalizzati al sostegno della formazione, istruzione e occupazione.

E’ stata la prima direttrice per le Pari Opportunità ad essere nominata dalla Commissione Europea. Entrata nel 2007 nel Servizio Diplomatico dell’Unione, ha aperto la delegazione dell’UE presso il Consiglio d’Europa ed è stato il primo ambasciatore residente dell’Unione a Strasburgo. Qui ha rappresentato l’Unione, coordinato i Paesi membri e lavorato sui temi dei diritti dell’uomo e della democrazia.

Da luglio 2015 è Direttore dell’Ufficio di Venezia del Consiglio d’Europa.

E’ autrice di vari articoli su questioni europee. Ha pubblicato “Il fondo Sociale europeo nello sviluppo italiano”, un libro sulle interrelazioni fra fondi strutturali, politiche dell’impiego e affari sociali in Italia. Ha ricevuto nel 1998 il premio europeo della Fondazione Bellisario per le Donne Imprenditrici.

Nel 2019 pubblica Il valore del Patrimonio culturale per la società e le comunità – La Convenzione di Faro fra teoria e prassi.

 

 

Musei e Gender Gap

Parlare di discriminazione di genere all’interno dei musei non è una novità. Dallo slogan lanciato nel 1985 dalle Guerrila Girls “Do Woman have to be naked to get into the Met Museum?” alle più recenti ricerche sulla gender pay gap fra gli artisti contemporanei, il dibattito è ormai aperto da tempo e ben lontano da una conclusione. E’ chiaro che la strada da percorrere per avere un trattamento equo delle donne nel mondo dell’arte e della cultura è ancora lunga, anche se sicuramente sono stati fatti passi avanti negli ultimi decenni.

Il pari trattamento delle artiste, la loro presenza nei musei e nel mercato dell’arte, il modo in cui le donne vengono rappresentate: questi sono da sempre i temi centrali della battaglia per la parità di genere nel mondo dell’arte e dei musei. C’è però un’altro aspetto della questione che spesso rischia di essere trascurato, soprattutto a livello nazionale: il ruolo che le donne hanno nei musei come lavoratrici.

A nostro parere questo deve diventare invece un argomento centrale: non ci si può aspettare di risolvere, o anche solo affrontare un problema senza lavorare sulle strutture in cui verifica. Non ci si può quindi limitare a ragionare in termini di  contenuti e allestimenti. Bisogna riflettere anche sul museo inteso come luogo di lavoro.

Questo è particolarmente rilevante perché, come dimostrano le ricerche promosse all’estero da istituzioni come GEMM (Gender Equity in Museum Movement)  le professioni museali rischiano di diventare una pink collar profession”, termine nato durante la seconda guerra mondiale per indicare quelle occupazioni che vengono esclusivamente, o quasi, praticate da donne. Negli Stati Uniti, se i trend degli ultimi anni saranno confermati, in un decennio più del 70% della forza lavoro impiegata nei musei sarà composta da donne.

Cosa significa? In questi casi è facile che si verifichi quello che viene chiamato un “respect gap”. Le professioni “femminili” vengono svalutate, considerate meno attraenti dalle persone di entrambi i generi e spesso pagate di meno. E lavorare in un ambiente prevalentemente femminile non elimina inoltre altri tipi di discriminazione. 

E’ vero che anche nelle pink collar profession se la presenza degli uomini non è del tutto assente è però spesso prevalente nei ruoli dirigenziali. Anche in questa categoria si notano differenze di trattamento, come dimostra il report del 2017 sul gender pay gap riguardante i direttori dei musei prodotto dall’AAMD (Association of Art Museum Director, USA). Se il numero delle direttrici donne negli Stati Uniti è in aumento (del 5% rispetto al 2013, per il 48% del totale) le donne continuano a guadagnare di meno rispetto ai loro colleghi uomini. Inoltre, si riscontrano significative differenze in base alla tipologia – e al budget- del museo. Più è alto il budget a disposizione dei musei presi in considerazione, più la percentuale di donne direttrici si abbassa. E in questi casi anche la disparità nello stipendio aumenta notevolmente (le donne guadagnano circa 20% in meno degli uomini).

E in Italia? Non esistono dati o ricerche statistiche specifiche all’ambiente museali, ma il  Global Gender Gap Report 2018 del World Economic Forum mette l’Italia al 70° posto a livello mondiale nel suo Global Index, e al bassissimo 118° per  parità nelle opportunità economiche. Rimane alta però la partecipazione delle donne all’educazione. L’Italia si classifica prima per numero di donne laureate, che sono in numero maggiore rispetto agli uomini (136 ragazze ogni 100 ragazzi).  Nelle arti e materie umanistiche il numero di laureate è quasi il doppio rispetto a quello dei colleghi maschi (il 19,2 % delle laureate donne è in materie umanistiche, contro il 10.9% degli uomini).

Questo ci dimostra come l’elemento chiave per ragionare sulla parità di genere nei musei e nel mondo della cultura si trovi nelle condizioni lavorative delle donne. Competenze e volontà di partecipazione sono presenti: è da vedere se questi si traducono in effettive opportunità, trattamento equo e giusta valorizzazione dei talenti.

In ogni caso, una riflessione sullo stato delle donne lavoratrici all’interno dei musei italiani richiede un’analisi più attenta e precisa, che tenga in considerazione i ruoli dirigenziali e le opportunità date alle donne di fare carriera nei musei ma anche tutte le altre categorie lavorative impegnate a far funzionare un museo. Ed è importante che indagini e ricerche siano accompagnate da una conversazione continua ed aperta. 

Proprio questo mese Voice of Cultures ha organizzato degli incontri di brainstorming sul tema “GENDER EQUALITY: Gender Balance in Cultural and Creative Sectors”,  presso il Goethe-Institut a Praga. Questi incontri dovranno identificare problemi, sviluppare possibili azioni da mettere in atto e misure per rimuovere ostacoli alla partecipazione femminile alle arti e alla cultura. I risultati saranno sicuramente un punto di partenza interessante per iniziare a lavorare sulla disparità di genere nel mondo della cultura europeo.

Nessun passo avanti può essere fatto senza un confronto sul tema:  chiediamo quindi a voi di raccontarci le vostre esperienze, negative e positive.