Decolonizzazione dei musei: nuove pratiche di restituzione
La decolonizzazione museale va oltre la restituzione degli oggetti: Dahomey di Mati Diop e l'esperienza del Centro Culturale Tjibaou di Nouméa mostrano come ripensare narrazioni, ruoli e pratiche. Un percorso verso una museologia etica e partecipativa.

06/05/2025
Editoriale
Mati Diop, premiata al Festival di Berlino 2024 con Dahomey, offre uno spunto imprescindibile per riflettere sulla decolonizzazione dei musei. Il film racconta il ritorno di ventisei oggetti sacri del Regno di Dahomey (oggi Benin) dalla Francia, dopo oltre un secolo di permanenza nei musei europei. La restituzione di opere d'arte alle ex colonie rappresenta una delle sfide più urgenti e complesse nel processo di decolonizzazione delle istituzioni museali contemporanee.
Nel documentario, le voci giovani e la memoria storica si intrecciano, restituendo complessità a un gesto che non può limitarsi a un atto simbolico. Una delle riflessioni più incisive emerge attraverso le parole di una studentessa:
Non vogliamo solo il ritorno degli oggetti, vogliamo il ritorno della nostra dignità.
Questa dichiarazione evidenzia come la decolonizzazione sia un processo che investe non solo il patrimonio materiale, ma l’identità collettiva e il riconoscimento storico. La restituzione, dunque, si configura come un atto politico e culturale che interroga il presente, non semplicemente come una riparazione del passato.
Come osserva Clémentine Deliss, curatrice e teorica dell’etnografia museale, "senza una revisione critica dei sistemi narrativi, la restituzione rischia di diventare una semplice operazione diplomatica" (Deliss, 2020, The Metabolic Museum).
Per i musei contemporanei, il tema della decolonizzazione si traduce nella necessità di interrogare i propri fondamenti epistemologici: la costruzione stessa delle collezioni, il linguaggio espositivo, le pratiche curatoriali e la governance delle istituzioni. Non si tratta soltanto di restituire oggetti, ma di cedere voce e centralità a nuove prospettive narrative, anche quando esse risultano profondamente distanti dalle concezioni occidentali del patrimonio.
Accanto al caso beninese, l’esperienza della Nuova Caledonia offre un ulteriore esempio emblematico. Dopo anni di rivendicazioni, molte opere d’arte kanak sono state rimpatriate dalla Francia e accolte presso il Centro Culturale Tjibaou di Nouméa. In questo contesto, la restituzione non è stata concepita come una mera chiusura di un contenzioso storico, ma come un'opportunità per ridare vita culturale agli oggetti reimpatriati.
Come dichiarato nel Statement of Principles del Centro:
Gli oggetti non devono essere reclusi. Appartengono ai clan, alle cerimonie, ai racconti. Devono viaggiare, essere toccati, raccontati di nuovo.
In linea con questa visione, il Centro ha promosso la circolazione degli oggetti tra le comunità di origine, affinché potessero tornare a svolgere una funzione attiva nella vita sociale, spirituale e culturale dei Kanak. Questo approccio ribalta il paradigma tradizionale del museo come luogo di conservazione statica, proponendo invece una concezione dinamica e comunitaria del patrimonio.
Gli artefatti kanak – sculture ancestrali, totem, strumenti cerimoniali – sono infatti considerati "soggetti culturali viventi". Come sottolinea l'antropologo Alban Bensa: "Restituire non significa conservare: significa restituire il potere narrativo e simbolico a chi ne è stato privato." (Bensa, Les Kanak face à l'État, 2005).
La filosofia di restituzione adottata a Nouméa è oggi riconosciuta come una delle pratiche più avanzate di decolonizzazione museale, capace di creare un vero "museo in movimento". Essa dimostra che la decolonizzazione non riguarda solo il possesso fisico degli oggetti, ma implica una revisione profonda delle strutture di potere, dei sistemi di conoscenza e delle forme di rappresentazione culturale.
In conclusione, come emerge con forza sia da Dahomey sia dall’esperienza del Centro Culturale Tjibaou, la decolonizzazione museale non può limitarsi alla restituzione degli oggetti.
Richiede un completo stravolgimento degli schemi museologici tradizionali, la cessione della voce alle comunità di origine e l’accoglienza di nuove narrazioni, anche radicalmente divergenti da quelle occidentali.
Solo attraverso questo processo di ascolto, responsabilità e apertura epistemologica sarà possibile costruire una museologia autenticamente etica, partecipativa e plurale.